gastrodiplomacy-Asia

Il cibo come strumento di soft power: la gastrodiplomacy in Asia

Chiara Galvani

Introduzione

Il cibo è un elemento centrale dell’identità e della cultura di una nazione, ne rappresenta infatti la storia, le tradizioni e i valori (Lipscomb 2019, 1). Da circa un decennio anche l’Unesco ha riconosciuto il valore identitario della gastronomia, inserendo alcune tradizioni culinarie tra i beni immateriali dell’umanità.

Il cibo, inoltre, è stato ed è utilizzato come strumento per ostentare ricchezza, consolidare alleanze, rafforzare relazioni di potere e per costruire e potenziare un senso di identità nazionale (Holtzman, 2006; Lusa & Jakesevic, 2017 in Kelvin E. Y. Low 2021, 1).

In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso il cibo può essere facilmente condiviso, questo ha portato al successo della cosiddetta “gastrodiplomazia” (Lipscomb 2019, 1). È uno strumento sempre più utilizzato dagli Stati per promuovere i processi di “public diplomacy” (forma di soft power che comprende lo scambio di idee, le informazioni, le arti, le lingue ed altri aspetti della cultura tra nazioni e popoli per una mutua comprensione [1]) e di “nation-branding” (strategia adottata da un Paese per trasmettere una particolare immagine di sé).

I Paesi asiatici sono considerati pionieri nell’utilizzo del cibo come strumento di promozione verso l’esterno. La Thailandia è stato il primo Paese ad adottare questo tipo di diplomazia e il suo successo ha poi ispirato i suoi vicini asiatici.

Dopo aver approfondito i concetti di “gastrodiplomacy”, “public diplomacy” e “nation branding” il dossier si propone di analizzare tre case studies: la Thailandia, il Giappone e la Corea del Sud per capire i diversi modi e scopi di utilizzo della gastrodiplomacy.

1-Definizione di “gastrodiplomacy, nation branding e public diplomacy”

Il termine “gastrodiplomacy” è stato coniato da Rockower, gastronomo e laureato presso il Centro di diplomazia pubblica della University of Southern California, nel suo articolo “Recipes for gastrodiplomacy” (2012).

Secondo questo studioso la gastrodiplomacy è una strategia sempre più popolare per perseguire obiettivi di public diplomacy e nation branding.

Per comprendere appieno il concetto di gastrodiplomacy è quindi necessario chiarire il significato di questi due concetti che stanno diventando sempre più centrali nell’ambito delle relazioni internazionali.

Non esistono definizioni ufficiali di questi due termini e molti li considerano sinonimi.

Le relazioni e le combinazioni possibili tra nation branding e public diplomacy sono svariate ed è difficile prevedere quale modello potrà essere dominante negli studi futuri, i confini sono infatti molto sfumati come mostrato nella figura sottostante (Figura 1).

Figura 1

nationa-branding-public-diplomacy-Szondi

La “public diplomacy” è legata al campo delle relazioni internazionali e ha origine negli Stati Uniti.

Il termine è stato introdotto da Edmund Gullion, diplomatico americano, nel 1965, che afferma:

la public diplomacy…si occupa dell’influenza degli atteggiamenti pubblici sulla formazione e l’attuazione delle politiche estere. Comprende aspetti delle relazioni internazionali che vanno oltre la diplomazia tradizionale, l’influenza da parte dei governi delle opinioni pubbliche di altri paesi, l’interazione di gruppi e interessi privati ​​di un paese con un altro, la cronaca degli affari esteri e il suo impatto sulla politica, la relazione tra coloro che fanno della comunicazione il loro mestiere, come diplomatici e corrispondenti esteri, e il processo di comunicazione interculturale.

È un termine difficile da tradurre in tutte le lingue, per questo spesso viene tradotta come “diplomazia culturale” o “promozione” (Szondi 2008, 10).

A differenza della diplomazia di Stato tradizionale implica la comunicazione tra i governi e il pubblico in generale (G2P, government to person) e sempre più anche le interazioni P2P (people to people) (Rockower in Suntikul 2019, 1077). Si riferisce, infatti, alla comunicazione governativa diretta principalmente al pubblico straniero con lo scopo di realizzare cambiamenti ‘nei cuori e nelle menti’ delle persone (Szondi 2008, 6).

Negli anni il significato di questo termine è mutato in linea con l’evolversi della comunità internazionale e delle dinamiche mondiali. Questi cambiamenti sono riassunti nello schema di Szondi (Figura 2):

Figura 2

public-diplomacy-szondi

Fonte: Szondi 2008, 11

Il “Nation branding” è nato nel Regno Unito, i suoi padri sono Anholt, che ha coniato il termine nel 1996 e Ollins, che sostiene che le nazioni hanno sempre “branded and rebranded themselves”. È un concetto legato alla sfera del marketing e della comunicazione, è l’applicazione delle strategie e degli strumenti di branding agli stati nazione (Szondi 2008, 4).

Uno dei modelli più noti è l’esagono di Anholt (Figura 3) che mostra le 6 dimensioni del nation brand: turismo, export, governance, investimenti e immigrazione, cultura e patrimonio e persone.

Figura 3

nation-brand-hexagon-anholt

Questi due concetti sono complementari, sono infatti entrambi strumenti di “soft power”.

Localizzata all’intersezione tra politica alimentare e politica estera, la gastrodiplomacy utilizza le delizie culinarie di un Paese come mezzo per condurre la public diplomacy e aumentare la consapevolezza del brand-nazione (Rockower 2012, 235).

Il termine si riferisce a campagne concertate e sostenute di pubbliche relazioni e investimenti da parte di governi e stati, spesso in collaborazione con attori non statali, per aumentare il valore e la reputazione del proprio marchio nazionale attraverso il cibo (Rockower in Suntikul 2019, 1076).

Questa pratica appartiene alla sfera della diplomazia P2P (people to people) che non mira a risolvere i conflitti affrontandoli frontalmente, ma piuttosto si concentra sulla comprensione generata dal contatto tra le persone, cercando di creare sentimenti da interessi ed esperienze comuni, in modo che sia meno probabile che emergano conflitti (Suntikul 2019, 1078). Una diplomazia, quindi, che mette al centro le persone.

Quali sono gli elementi della gastrodiplomacy?

Uno degli elementi principali della gastrodiplomacy è ovviamente il cibo.

Il cibo, come afferma Wilson “è il nostro terreno comune, un’esperienza universale” e può essere utilizzato come un mezzo non minaccioso per ottenere favore e stabilire una connessione con un pubblico straniero (Rockower 2012, 236). L’offerta di cibo e il coinvolgimento culinario possono creare legami emotivi positivi, contribuendo a migliorare anche le relazioni internazionali.

Altri elementi chiave sono la cultura e l’identità nazionale. Mentre le tradizionali campagne di public diplomacy basate su tattiche di advocacy tentano di influenzare direttamente l’opinione pubblica, la gastrodiplomacy cerca di creare una connessione emotiva più obliqua utilizzando il cibo come mezzo di coinvolgimento (ibidem).

Il cibo è parte del patrimonio culturale di ogni Paese. In uno studio che ha analizzato la capacità delle cucine nazionali di influenzare l’immagine di una nazione, il 55% degli intervistati ha riferito di aver cambiato opinione su un Paese dopo aver assaggiato la sua cucina, e l’84% ha preso in considerazione di visitare un determinato dopo aver provato la cucina locale (Ruddy 2014 in Suntikul 2019, 1080).

Il cibo, infatti, permette di conoscere una cultura straniera anche senza viaggiare all’estero. Allo stesso tempo, il cibo è una componente importante del destination marketing poiché la cultura culinaria di un Paese può fornire un’attestazione tangibile della sua storia e della sua cultura (ibidem).

2-Quali sono i Paesi che più utilizzano la gastrodiplomacy?

I primi Paesi ad adottare strategie di gastrodiplomacy sono state le medie potenze (come Thailandia, Taiwan, Perù e Corea del Sud) con lo scopo di creare un marchio nazionale più forte, favorire la comprensione della loro cultura (Sonenshine, Rockower, Chapple-Sokol, Weaver 2016, 10) e, di conseguenza, incrementare il commercio e gli investimenti e rafforzare il turismo (Zhou).

Questi Paesi, infatti, devono affrontare una serie di difficoltà relative alla loro visibilità sulla scena internazionale.

A tal proposito Gilboa (2009 in Rockower 2012, 238) ha commentato: “dal momento che le risorse delle medie potenze sono limitate, devono distinguersi in alcune aree attrattive e acquisire credibilità e legittimità”.

All’interno del gruppo delle medie potenze, i Paesi asiatici (Asia orientale e sudest asiatico) sono considerati dei veri e propri pionieri nell’utilizzo della gastrodiplomacy.

La Thailandia: un modello per l’Asia

La Thailandia costituisce uno dei primi esempi e un caso di studio ideale grazie alla promozione relativamente riuscita della sua cucina all’estero a partire dai primi anni 2000 fino ad oggi (Lipscomb 2019, 4).

La Thailandia, infatti, è stato il primo Paese a utilizzare le sue cucine e i suoi ristoranti come avamposti della diplomazia culturale (Rockower 2012, 238).

La gastrodiplomazia tailandese è stata avviata nel 2001 come parte dello sforzo del governo tailandese di caratterizzare la Thailandia come “Kitchen to the World” e “The food basket of Asia.” (Lipscomb 2019, 4).

L’obiettivo era di far aumentare il numero di ristoranti tailandesi nel mondo, con un focus su Stati Uniti e Paesi occidentali, passando da 5.500 a 8.000 entro il 2003.

Sotto il nome di “Global Thai Campaign”, questa campagna di gastrodiplomazia era solo uno dei molteplici progetti legati al cibo, alla moda, alla salute, alla cultura e al turismo volti a creare un’immagine positiva della Thailandia all’estero e distogliere l’attenzione dagli stereotipi negativi associati al turismo sessuale (ibidem).

Secondo The Economist (2002), infatti, il boom dei ristoranti “non solo porterà il delizioso cibo tailandese piccante a migliaia di nuove pance e convincerà più persone a visitare la Thailandia, ma potrebbe anche aiutare ad approfondire le relazioni con altri paesi” (Rockower 2012, 238).

L’etichetta “Thai select”, creata ad-hoc per questa campagna, inoltre, permetteva di certificare i ristoranti tailandesi all’estero come “autentici” e di “alta qualità” sulla base di determinati criteri come essere aperti da almeno un anno, operare almeno cinque giorni alla settimana, essere certificati dalle società di carte di credito Visa o American Express, impiegare chef tailandesi con un background culinario tailandese….

Questi standard rivelano le priorità del governo riguardo ai ristoranti tailandesi: essere operativi e accessibili, convenienti per il pubblico straniero ed essere “tailandesi” sulla base dei dati demografici dei dipendenti, del background educativo, dei metodi e delle offerte di cibo. Ciò offre al governo tailandese un maggiore controllo sull’immagine e sulla qualità che i ristoranti promuovono all’estero proiettano. Allo stesso modo, aiuta anche a favorire la standardizzazione e la coerenza tra i ristoranti tailandesi (Lipscomb 2019, 5).

Un altro aspetto della campagna consiste nell’implementazione del “Thai Chefs Work Visa”, che consiste in accordi stretti con diversi Paesi volti a facilitare il rilascio dei visti agli chef tailandesi che così possono recarsi facilmente all’estero per esigenze lavorative e di formazione.

Questa prima campagna si è rivelata un successo, nel 2003 i ristoranti tailandesi nel mondo arrivarono al numero di 13.000.

Nel 2018 il governo tailandese ha avviato un’altra campagna di gastrodiplomacy “Thailand: Kitchen of the World” per incrementare le esportazioni alimentari e adeguare i prodotti alimentari tailandesi agli standard internazionali di sicurezza e igiene, continuando a sostenere i ristoranti tailandesi all’estero (ibidem). I Paesi target, a differenza della campagna precedente, non erano gli U.S.A e i Paesi dell’Europa occidentale ma i Paesi del medio oriente, dell’Asia orientale e Sud-est asiatico e dell’America Latina.

Le campagne messe in atto hanno avuto un’influenza positiva sul turismo (tra il 2001 e il 2019 i turisti sono aumentati da 10 a 39.8 milioni [2]), hanno portato la cucina tailandese, fino a quel momento considerata “esotica”, ad essere “mainstream” e hanno determinato un aumento delle esportazioni dei prodotti thailandesi (nel 2021 la Thailandia ha raggiunto la 13esima posizione trai i Paesi esportatori di generi alimentari [3])

Secondo un sondaggio, condotto dalla Kellogg School of Management e dal Sasin Institute, il cibo tailandese si è classificato al quarto posto nella categoria delle cucine etniche più facilmente riconoscibili e al sesto nella categoria dei cibi preferiti (Sunanta, 2005). Tutte queste attività hanno contribuito a creare un marchio nazionale più robusto e riconoscibile (ibidem) che ha portato la Thailandia ad essere un modello da seguire per tutte quelle nazioni asiatiche che vogliono usare il cibo come strumento per migliorare e rafforzare il proprio nation brand.

Giappone: dove la gastrodiplomacy si associa al gastronationalism

Il Giappone ha avviato la gastrodiplomacy nel 2005 con l’obiettivo di diffondere la cultura gastronomica giapponese all’estero. Sakamoto e Allen (2011 in Zhang 2015, 3) sostengono che, in quell’anno, il governo giapponese ha incorporato il cibo, rappresentato principalmente dal sushi, nella sua campagna globale di soft power.

Nei primi anni 2000, infatti, il Giappone aveva iniziato a capire l’importanza dell’industria culturale come strumento di soft power ed espressione dello status di una nazione. Questa tendenza è stata abilmente riassunta da Douglas McGray nell’espressione “Japan’s gross national cool” da cui è derivato il concetto di “Cool Japan”. Secondo questo studioso, infatti, nonostante la grave recessione economica che il Paese stava affrontando dallo scoppio della bolla speculativa negli anni ’90 (il cosiddetto “decennio perduto”), il Giappone era ancora una superpotenza culturale grazie al successo della sua industria dei contenuti a livello mondiale (Farina 2021, 99).

Il cibo, quindi, è entrato a far parte, a pieno titolo, della strategia di nation branding e di promozione del Giappone all’estero.

Nel 2006 il Ministero degli Affari Esteri (MOFA) e il Ministero dell’Agricoltura, delle Foreste e della Pesca (MAFF) hanno lanciato la campagna “Washoku-Try Japan’s Good Food”, la
prima grande campagna internazionale per la presentazione del cibo e della cultura alimentare giapponesi all’estero (ibidem). L’obiettivo era diffondere la cultura alimentare giapponese e aumentare l’esportazione dei prodotti agricoli, forestali e della pesca attraverso la presentazione di piatti tipici in occasione di eventi speciali organizzati dalla missione diplomatica giapponese all’estero.

Nella cornice di questa campagna è stata anche introdotta un’organizzazione senza scopo di lucro per promuovere i ristoranti giapponesi all’estero con l’obiettivo di consigliare i ristoranti più autentici così come di diffondere l’uso di ingredienti giapponesi e le abilità culinarie tradizionali: la Japanese Restaurant Organization (JRO).

Questa organizzazione ha supportato la missione caratterizzata dallo slogan “Striving for Japanese restaurants that are loved around the world” e dal logo composto da quattro elementi: un cerchio bianco all’interno di un cerchio rosso, che rappresentano rispettivamente un piatto e la bandiera nazionale del Giappone; un paio di bacchette; e un fiore di ciliegio al centro del piatto (Zhang 2015, 6).

Il cibo è divenuto, quindi, un elemento fondamentale nella diplomazia culturale, uno strumento per trasmettere un’immagine positiva del Paese all’estero, promuovere la visibilità di un territorio con possibili effetti positivi su turismo e sull’economia.

Il Ministero degli Affari Esteri (MOFA) e il Ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria (METI) hanno svolto un ruolo attivo nella promozione della cucina giapponese all’estero (Farina 2021, 101).

Gli sforzi fatti a livello istituzionale hanno portato risultati importanti come l’aumento del numero di ristoranti giapponesi nel mondo (Figura 4), l’aumento delle esportazioni di prodotti alimentari (Figura 5) e l’incremento del flusso turistico incoming.

Figura 4

ristoranti-giapponesi-estero

Fonte: Nippon.com (2018)

Figura 5

esportazioni-giappone-prodotti-agricoli

Secondo una statistica del 2023, infatti, la maggior parte dei turisti visita il Giappone per provare le sue specialità culinarie (Figura 6).

Figura 6

motivi-arrivi-turisti-giappone

Fonte: Statista – Alexandru Arba (2024) [4]

Un altro importante risultato raggiunto è stato il riconoscimento della cucina giapponese come patrimonio culturale immateriale da parte dell’UNESCO nel 2013.

La designazione ufficiale è “washoku, cultura alimentare tradizionale dei giapponesi, in particolare per la celebrazione di Capodanno”. Nella domanda inoltrata dal Giappone il washoku veniva presentato in termini socioculturali, come un insieme di pratiche e valori che uniscono percorsi alimentari alle relazioni sociali, creano connessioni con l’ambiente, la natura e le stagioni ed esprimono profonde affinità culturali con rituali e modelli di vita comunitaria.

Si tratta di una definizione volutamente generica per assecondare i criteri dell’UNESCO, senza entrare nel dettaglio di ingredienti, cibi, sapori, piatti, tecniche culinarie, menu, terroir, stili regionali e specialità locali, o molti altri attributi gastronomici abitualmente associati a dissertazioni sulla cucina e sulla cultura del cibo (Bestor 2018, 106). A tal proposito Farina, ricercatore e docente di Politica e istituzioni del Giappone contemporaneo presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, afferma che quelli che il governo giapponese indica come elementi principali del washoku non sono altro che un’interpretazione forzata (se non una vera e propria manipolazione) di un’idea stereotipata della tradizione culinaria del Giappone (Farina 2021, 97).

Il riconoscimento da parte dell’UNESCO è il risultato di politiche non solo di gastrodiplomacy ma anche di gastronationalism. Le azioni intraprese, infatti, non hanno avuto solo l’obiettivo di diffondere la cucina giapponese all’estero per rafforzare l’immagine del Paese, ma anche quello di promuovere l’identità nazionale e riorientare i giapponesi verso un maggiore consumo di cibo domestico (ibidem, 101) anche in un’ottica di food security. Il Giappone, infatti, è tra i Paese sviluppati quello che ha la minor autosufficienza alimentare e che deve importare più del 60% del cibo necessario per sfamare la sua popolazione. In Giappone si è verificata una forte diminuzione della produzione alimentare interna che è passata dal 73% del 1965 al 40% di oggi (dati del Food Balance Sheet del Ministero giapponese dell’Agricoltura, Selvicoltura e Pesca). Il cambiamento della dieta dei giovani giapponesi che consumano sempre meno riso, pesce, soia e verdure locali e sempre più carne e prodotti animali che la produzione locale da sola non può fornire a sufficienza è uno dei principali motivi di questo declino (Barbieri, Del Torto, Galvani, Miorandi 2017).

Corea del Sud: quando il K-pop e il kimchi si uniscono

La Corea del Sud, come la Thailandia e il Giappone, ha iniziato ad adottare la gastrodiplomacy agli inizi dell’anno 2000. Nel 2008, in occasione del Korean Food Expo ha lanciato la campagna “Global Hansik” con lo scopo di rendere la cucina coreana la cucina etnica più riconosciuta al mondo entro il 2017 (Lipscomb 2019) e, entro lo stesso anno, aumentare il numero di ristoranti all’estero raggiungendo il numero di 40.000 (Rockwoker 2012, 239).

L’obiettivo finale era quello di rafforzare l’immagine del Paese su scala internazionale, immagine ancora spesso offuscata dalla notorietà di alcuni marchi locali e dei suoi vicini asiatici, soprattutto il Giappone. Secondo Rockwoker “Il marchio nazionale (sudcoreano) veniva cannibalizzato dal marchio giapponese” (Friedman 2024).

La campagna, sostenuta anche dalla first lady Kim Yoon-ok (ibidem), era focalizzata sugli aspetti salutari della cucina. Il governo sudcoreano ha infatti etichettato il cibo nazionali con le seguenti caratteristiche: ingredienti e ricette naturali, salute e benessere attraverso alimenti biologici, fermentati e rispettosi dell’ambiente come il kimchi e la salsa di soia e una dieta ipocalorica che utilizza principalmente verdure e frutti di mare anziché carne (Lipscomb 2019). Molti studiosi parlano di “kimchi diplomacy” vista la centralità data a questo alimento.

I fondi (circa 40 milioni di $ americani) furono usati per promuovere lezioni di cucina in prestigiose scuole e per supportare gli studenti con donazioni e borse di studio per frequentare scuole di cucina e fiere gastronomiche internazionali (Rockwoker 2012, 239).

Un aspetto interessante della strategia di gastrodiplomacy di questo Paese è che è stata fortemente supportata dalla hallyu, l’onda coreana che ha portato alla diffusione della cultura di massa sudcoreana in tutto il mondo. Oltre ai drama e al K-pop anche la cucina ha iniziato a iniziato ad essere apprezzata a livello mondiale. Nelle serie televisive oltre agli attori anche i piatti hanno assunto un ruolo da protagonisti.

Sul sito Hansik.org, il sito web principale della KFPI (Korean Food Promotion Institution), per esempio è presente un “K-Food Collaboration Album” di canzoni a tema alimentare di artisti coreani come Jay Park, Electro Boyz e Big Star, Teen Top e ZEA:A (ibidem).

Oltre al settore musicale anche quello televisivo-cinematografico svolge un ruolo nella diffusione del cibo coreano. Nel 2003, ad esempio, nella serie televisiva “Jewel in the Palace” (Dae Jang Geum), esportata in oltre 91 paesi, veniva dato particolare risalto alla cucina e alla cultura tradizionali coreane. Lo stesso si verifica in serie televisive più recenti come Let’s Eat (Siksyareul Habsida) (2013) e Flower Boy Ramen Shop (Kkotminam Ramyeongage) (2011). Uno studio di Kim e altri studiosi ha scoperto che i drama gastronomici coreani aumentano la conoscenza da parte degli spettatori internazionali del cibo e della cultura tradizionale e portano a una migliore percezione dell’immagine del Paese da parte di coloro che hanno sperimentato direttamente la cucina coreana (ibidem).

Più in generale si può dire che la fama della cucina coreana rientra in un clima di successo per diversi prodotti e per la cultura pop di questo Paese tra cui:

  • Prodotti di bellezza coreani (il mercato era valutato a 8,3 miliardi di $ nel 2021)
  • La serie Squid Game di Netflix (e l’investimento di 2,5 miliardi di $ del servizio di streaming in uno studio coreano)
  • Il film premio Oscar Parasite
  • Musica, incluso il K-pop (particolarmente popolari sono i gruppi BTS e Blackpink) e la canzone di successo del 2012 Gangnam Style
  • Mukbang, una tendenza dei social media in cui le persone mangiano davanti alla telecamera [5] (Friedman 2024).

Il successo della gastrodiplomacy è evidente se si guardano i dati relativi all’aumento esponenziale del numero di ristoranti coreani aperti all’estero (Figura 7), il successo della Corea del Sud come meta turistica (Figura 8) e l’aumento delle esportazioni agroalimentari (Figura 9).

Figura 7

ristoranti-coreani-estero

(Fonte: https://thehustle.co/originals/the-40m-bet-that-made-south-korea-a-food-and-cultural-power)

Figura 8

arrivi-turistici-corea-sud

(Fonte: Statista https://www.statista.com/statistics/709116/south-korea-inbound-visitors/)

Figura 9

evo-esportazioni-alimentari-corea-sud

(Fonte: Statista https://www.statista.com/statistics/780427/south-korea-food-export-value/)

Un aspetto da migliorare è, però, il riconoscimento del brand. Nel 2018, un sondaggio del Korea Food Promotion Institute ha evidenziato che circa l’88% dei residenti negli Stati Uniti era soddisfatto del cibo coreano, ma solo il 63% circa era a conoscenza del Paese di provenienza del cibo consumato. Nel frattempo, l’Anholt-Ipsos Nation Brands Index (come viene ora chiamato l’Anholt-GfK Roper Nation Brands Index) ha classificato nel 2022 la Corea del Sud al 23° posto, inferiore rispetto all’obiettivo prefissato del 15° (ibidem).

Conclusioni

La gastrodiplomacy è una forma nuova di diplomazia che si sta diffondendo sempre di più a livello globale generando un interesse crescente tra gli studiosi del settore.

Si tratta, infatti, di uno strumento alla portata di tutti i Paesi soprattutto le potenze medio-piccole che possono in questo modo farsi conoscere ad un pubblico più vasto aumentando la loro influenza a livello internazionale.

In un mondo dove la foodie culture è sempre più diffusa il cibo e la gastronomia diventano potenti mezzi di comunicazione.

Questo tipo di diplomazia ha ricadute positive nell’ambito del turismo, dell’economia e sull’immagine dei Paesi.

Un aspetto della gastrodiplomacy più recentemente valutato, inoltre, riguarda l’uso del cibo nella risoluzione di conflitti e nella creazione di un dialogo interculturale. Come afferma Johanna Mendelson Forman, professoressa esperta in gastrodiplomacy e social gastronomy: “bisogna considerare la gastrodiplomacy e il cibo in generale come un ponte per connettere le persone”. “Le persone possono avere attorno a un tavolo discussioni civili che potrebbero non avere in altri posti, e questo è molto importante.” (Safranova, 2024).

Note:

[1] “Cultural Diplomacy, Political Influence, and Integrated Strategy,” in Strategic Influence: Public Diplomacy, Counterpropaganda, and Political Warfare, ed. Michael J. Waller (Washington, DC: Institute of World Politics Press, 2009), 74.

[2] https://www.pastemagazine.com/food/gastrodiplomacy/how-the-thai-government-made-the-whole-world-fall-in-love-with-thai-food

[3] https://www.pastemagazine.com/food/gastrodiplomacy/how-the-thai-government-made-the-whole-world-fall-in-love-with-thai-food

[4] https://www.statista.com/statistics/1067557/japan-leading-travel-motivations-foreign-tourists/

[5] Avevamo parlato del fenomeno del Mukbang in questo dossier: https://www.orizzontinternazionali.org/2024/02/04/il-cibo-come-elemento-culturale-il-fenomeno-del-mukbang/

 

Bibliografia:

Barbieri M., Del Torto S., Galvani C. Galvani F., Miorandi A. (2017), Food security nella regione Asia-Pacifico: una sfida alla stabilità della zona, https://www.orizzontinternazionali.org/2017/11/14/food-security-nella-regione-asia-pacifico-una-sfida-alla-stabilita-della-zona/ (consultato il 05/08/24)

Bestor T.C. (2018), Washoku, Far and Near: UNESCO, Gastrodiplomacy, and the Cultural Politics of Traditional Japanese Cuisine in Devouring Japan: Global Perspectives on Japanese Culinary Identity (edited by Nancy K. Stalker), 99-117

Fan Y. (2008), Soft power: power of attraction or confusion?, Place branding and public diplomacy (2008) 4:2, pp. 147-158

Farina F. (2021), The politics of washoku: Japan’s gastronationalism and gastrodiplomacy in Castorina M. Cucinelli D. (edited by) Food issues 食事 Interdisciplinary Studies on Food in Modern and Contemporary East Asia, Firenze University press, 93-107

Friedman S. (2024), The $40m bet that made South Korea a food and cultural power, https://thehustle.co/originals/the-40m-bet-that-made-south-korea-a-food-and-cultural-power (consultato il 05/08/24)

Lipscomb A. (2019), Culinary Relations: Gastrodiplomacy in Thailand, South Korea, and Taiwan, The Yale Review of International Studies, http://yris.yira.org/essays/3080 (consultato il 15 dicembre 2023)

Low K.E.Y. (2021), Gastropolitical encounters and the political life of sensation, The Sociological Review 2021, Vol. 69(1) 190–205 /

Nippon.com (2018), Number of Overseas Japanese Restaurants Tops 100,000, https://www.nippon.com/en/features/h00218/ (consultato il 05/08/24)

Olins W. (2004), Branding the nation: the historical context, in: Morgan Nigel, Pritchard Annette and Roger Pride (edited by), Destination branding: creating the unique destination proposition, Elsevier

Rockower P.S. (2012), Recipes for gastrodiplomacy, Place Branding and Public Diplomacy Vol. 8, 3, 235–246

Sonenshine T. Rockower P. Chapple-Sokol S. and Weaver G. (2016), CULINARY DIPLOMACY, GASTRODIPLOMACY, AND CONFLICT CUISINE: DEFINING THE FIELD, Stimson Center.

Szondi G. (2008), Public Diplomacy and Nation Branding: Conceptual Similarities and Differences, in: Virginie Duthoit & Ellen Huijgh (edited by), Discussion papers in diplomacy, Netherlands Institute of International Relation ‘Clingendael’.

Zhang J. (205), The Foods of the Worlds: Mapping and Comparing Contemporary Gastrodiplomacy Campaigns, International Journal of Communication 9 (2015), 568–591

Zhou Angela, Gastrodiplomacy: Tantalising or Totalising Globalisation?, https://www.uclasiaticaffairs.com/publications-list/gastrodiplomacy-tantalising-or-totalising-globalisation

Wantanee Suntikul (2019) Gastrodiplomacy in tourism, Current Issues in Tourism, 22:9, 1076-1094, DOI: 10.1080/13683500.2017.1363723

 

(Featured image source: Unplash Lisheng Chang)