L’eclissi di Hong Kong: intervista a Ilaria Maria Sala
– Chiara Galvani –
Hong Kong, passata dal controllo britannico a quello cinese con il motto “Una Cina, due sistemi”, negli ultimi anni è stata investita da cambiamenti epocali come l’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale nel 2020 cui sono seguite numerose manifestazioni e proteste. Per capire le trasformazioni di questa città bisogna conoscerne la storia.
Ilaria Maria Sala, giornalista e scrittrice italiana che vive a Hong Kong, nel suo ultimo libro “Eclissi di Hong Kong, Topografia di una città in tumulto” edito da add editore ricostruisce la topografia di questa città simbolo, rivelandone la storia cosmopolita e ibrida attraverso le storie delle persone che la abitano.
Abbiamo intervistato Ilaria Maria Sala che ci ha raccontato del suo libro e che ci ha accompagnato alla scoperta di Hong Kong e delle sue tante facce.
1) Perché hai deciso di aprire il tuo libro con la descrizione dello Star Ferry?
Apro con la descrizione dello Star Ferry per tanti motivi: intanto, perché è il traghetto che porta da una riva all’altra delle due parti principali di Hong Kong. Poi, è qualcosa di caro a tutti – non a caso, come racconto nel libro, possiamo datare l’inizio della presa di coscienza politica delle nuove generazioni proprio dalla sconsideratezza con cui l’amministrazione ha distrutto il molo storico dello Star Ferry. Sia il traghetto che il molo sono significativi – il fatto che lo stretto di Vittoria e il traghetto che lo attraversa siano sulle brochure turistiche non significa che ne venga spiegata l’importanza, e quanto assolutamente tutti quelli che vivono a Hong Kong amino attraversare lo stretto prendendo lo Star Ferry.
2) Nell’introduzione affermi che “Il mondo era sconvolto da una pandemia, evento a cui Hong Kong ha reagito con la chiusura delle frontiere, mantenendosi precariamente al riparo dal virus e costruendo intorno a sé una bolla. Non di bambagia ma di spine.” e “Il 30 giugno 2020 il governo centrale cinese ha imposto una legge sulla quale nessuno a Hong Kong è stato consultato, né gli organi legislativi, né il governo, né la popolazione: la Legge sulla sicurezza nazionale.”
Quanto il Covid-19 e la gestione pandemica sono state sfruttate per introdurre leggi come quella della sicurezza nazionale e sopprimere il dissenso?
Tutti i governi del mondo devono stabilire delle misure di controllo e dei protocolli sanitari restrittivi quando devono affrontare una pandemia – questo è universale. A Hong Kong però la pandemia è arrivata quando ancora ogni sera c’erano scontri per le strade, le proteste non davano segno di finire e la speranza di riuscire in qualche modo a intavolare un dialogo politico con le autorità era ancora viva. Ma Hong Kong era già stata traumatizzata dall’epidemia di SARS, nel 2003, e la popolazione ha dunque reagito per prima, mettendosi le mascherine e aumentando le accortezze di igiene per limitare la possibilità di contagio. Dire che il governo abbia visto questo stallo come l’occasione per mettere fine alle proteste è ovvio – ad oggi, non è possibile manifestare a Hong Kong per “protocollo anti-pandemico”. E malgrado questo, ecco che Pechino ha voluto introdurre una legge liberticida proprio quando nessuno era autorizzato a riunirsi, discutere, reagire. Credo che sia difficile interpretare in altro modo la tempistica con cui il governo ha agito, in particolar modo se osserviamo il tipo di provvedimenti presi.
3) La storia di Hong Kong sembra essere caratterizzata dalle proteste, perché?
Si e no. Le proteste a Hong Kong sono frequenti, importanti e profonde, ma non sono ininterrotte. Il motivo che ha portato le persone ripetutamente in strada però è sempre lo stesso: il desiderio da parte della popolazione di avere voce in capitolo sul modo in cui viene governata. Avere voce in capitolo su quali edifici vengono abbattuti (vedi di nuovo la domanda 1, e lo Star Ferry) o su come vengono utilizzati i parchi naturali o le risorse di Hong Kong. Siamo davanti a una popolazione che ha sviluppato un forte senso civico, ma a cui non è nemmeno consentito votare per i propri leader, malgrado questo le fosse stato promesso.
4) “Per Hong Kong, essere multietnica e multiculturale non è né una scelta, né una forzatura: è sempre stato così.”
Hong Kong città multietnica, anche se esclude alcuni gruppi come le collaboratrici domestiche. Quante Hong Kong esistono?
Hong Kong è multietnica e multiculturale, il fatto che alcuni settori della popolazione siano discriminati non cambia la realtà multietnica. Di Hong Kong ne esistono probabilmente centinaia, e come sempre accade non sono tutte in contatto: conosco poco la realtà delle signore delle famiglie bene, che collezionano Rolls Royce per poterle abbinare a scarpe e borse e vanno ai balli di gala – né ho mai scambiato più di qualche parola con i pescatori di Tai O. Immagino che entrambi questi gruppi, così come tanti altri, vedano la situazione in modo diverso: quello però che è un dato misurabile è che le partenze continuano, chi decide che lasciare Hong Kong sia l’unica possibilità non diminuisce, e ormai abbiamo superato la cifra delle 250mila persone che partono.
5) Nel tuo libro racconti Hong Kong anche attraverso i suoi miti e leggende come quella dei Lo Ting, “esseri leggendari per metà umani e per metà pesci”. Spesso Hong Kong viene associata a temi legati all’economia e alla grande finanza, quanto le tradizioni, i miti e le leggende possono essere una chiave di lettura di una città?
L’economia e la grande finanza riguardano una parte abbastanza ridotte di persone, anche se dall’esterno per l’appunto si parla solo di quello. Ho voluto cercare di raccontare che Hong Kong è molto altro, anzi, è soprattutto altro: le banche sono spesso viste come uno dei tanti strumenti di controllo della popolazione, grazie alle loro relazioni strette e di vecchia data con il potere. Ma per tutti gli altri sono molto più familiari i Lo Ting, o le leggende che abbracciano mille altre cose, o i dolci della sposa, o tante altre tradizioni legate al calendario lunare e che scandiscono i giorni. Trovo che spesso si parli in modo terribilmente superficiale delle città, non sono sicura di sapere del tutto il perché, e si finisce solo a parlare di sovrastrutture legate alla politica o all’economia che non tengono conto di quanto altro vada a comporre le nostre vite. Quando scrivo, cerco di raddrizzare questa bilancia che mi sembra così sbilenca.
6) Taiwan dal tuo libro viene spesso menzionata come il luogo in cui hanno trovato rifugio intellettuali prima residenti a Hong Kong o dove si sono spostate alcune case editrici indipendenti. Alla luce dei fatti recenti, pensi che a Taiwan toccherà lo stesso destino di Hong Kong?
Onestamente non me la sento di fare delle previsioni. Se pensiamo in modo razionale, è chiaro che un’invasione cinese di Taiwan che metta fine allo status quo attuale sarebbe una follia, ma è stata una follia anche l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, per cui non si può mai dire.
Quello che dobbiamo ricordare però è che Hong Kong e Taiwan sono per statuto molto diverse: Hong Kong fa parte del territorio cinese, su Hong Kong sventola bandiera cinese dal 1997, e il fatto che il governo di Pechino non abbia mantenuto le promesse fatte e che vi sia un forte scontento non vuol dire che il potere cinese sia illegittimo. Taiwan ha un’altra bandiera. Ha un suo governo, che non deve chiedere niente a Pechino, dal 1949. Ha le sue elezioni, e una manciata di governi che la riconoscono come un paese sovrano (non le Nazioni Unite, ovviamente). Quindi per modificare le cose ci deve essere un’invasione militare, e ci deve essere la capacità di convincere una società che vuole continuare ad autodeterminarsi ad essere invece governata da qualcun altro, e per di più un qualcuno profondamente ostile ai valori di democrazia, trasparenza, libertà di stampa e di espressione che sono invece così alti a Taiwan.
7) Hong Kong è sempre stato un punto privilegiato e sicuro per fare giornalismo sull’Asia e soprattutto sulla Cina.
Tu sei una giornalista, pensi di restare a Hong Kong per svolgere la tua attività professionale o pensi che Hong Kong non sia più un posto adatto per l’attività giornalistica?
Vedremo!