questione-uigura-xinjiang-intervista

“Uyghurs for Sale”: intervista a Daria Impiombato

La questione “cotone dello Xinjiang” è balzata al centro di tanti media nazionali e internazionali nel mese di marzo.
Diversi report indicano che nella regione viene fatto un uso coercitivo della forza lavoro uigura da parte del governo cinese e questo si ricollega non solo ai campi di detenzione ma anche alle catene di produzione di grandi marchi internazionali.
Qual è la condizione della minoranza uigura in Xinjiang? Qual è il grado di responsabilità dei marchi internazionali nello sfruttamento di manodopera uigura per la produzione del cotone? Quali potranno essere le conseguenze nelle relazioni internazionali cinesi?
Ne abbiamo parlato con Daria Impiombato, ricercatrice presso l’International Cyber Policy Centre dell’Australian Strategic Policy Institute (ASPI).

1- In questi giorni la questione del cotone dello Xinjiang è stata trattata da numerosi media internazionali ma la “questione uigura” non è nuova. Con ASPI da quanto tempo seguite il tema? Su quali aspetti della “questione uigura” vi siete concentrati?

La repressione della minoranza etnica uigura dello Xinjiang, regione autonoma della Cina occidentale, è una questione che purtroppo si protrae da decenni, seppur in dimensioni diverse.

ASPI, ed in particolare l’International Cyber Policy Centre (ICPC), conduce progetti di ricerca sulle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang da anni. Per esempio, nel novembre del 2018, ICPC ha pubblicato un primo report chiamato “Mapping Xinjiang’s ‘re-education’camps”, che documenta le posizioni di numerosi campi di detenzione in cui persone appartenenti a minoranze etniche, soprattutto quella uigura, vengono detenute regolarmente ed in maniera arbitraria. Questo database è poi stato notevolmente espanso ed aggiornato sul nostro nuovo sito, il “Xinjiang Data Project, in cui sono raccolti numerosi report, mappe e ulteriori dati che spiegano la gravità della questione in maniera comprensiva. Oltre ad i campi di detenzione ed indottrinamento politico, ci siamo anche occupati di “genocidio culturale”, esposto in “Cultural Erasure”, e sistemi di sorveglianza avanzatissimi, come gli immensi database di DNA esposti in “Genomic Surveillance. Ci siamo inoltre occupati di altri problemi tangenziali, quali il coinvolgimento di compagnie cinesi nei progetti di sorveglianza e repressione dello Xinjiang, reperibili sul sito Mapping China’s Tech Giants”.

Insomma, la “questione uigura” è al centro della nostra ricerca ed expertise da tempo, ma il report che di sicuro ha attratto la maggiore attenzione a livello internazionale, e i quali effetti riverberano tutt’oggi, è “Uyghurs for Sale, o “Uiguri in vendita”, pubblicato nel marzo dello scorso anno. Qui, infatti, abbiamo raccolto centinaia di prove che suggeriscono un uso coercitivo della forza lavoro uigura da parte del governo cinese, e che si ricollega non solo ai campi di detenzione, ma anche alle catene di produzione di grandi marchi internazionali.

2- Perché si parla di lavoro forzato nel caso degli Uiguri?

Nel nostro report, spieghiamo le varie motivazioni che ci hanno indotti a definirlo lavoro forzato. In particolare, abbiamo utilizzato i parametri forniti dalla International Labour Organization (ILO) nella Convenzione sul Lavoro Forzato del 1930 e il Protocollo del 2014 alla Convenzione sul Lavoro Forzato. I nostri casi studio hanno fornito prove di intimidazione e minaccia, minaccia di detenzione arbitraria, monitoraggio attraverso personale di sicurezza e sistemi di sorveglianza, minacce a membri della famiglia, limitata libertà di movimento, isolamento, abusi sul lavoro, ed ore di lavoro eccessive.

3- Molti marchi internazionali coinvolti nello scandalo hanno affermato che non sapevano che nella loro produzione venisse usato cotone prodotto dal lavoro forzato degli uiguri. Pensi che sia per la complessità della filiera o perché le aziende non vogliono riconoscere la loro responsabilità?

Il problema che sussiste alla base di queste affermazioni è l’opacità delle catene di produzione in Cina. Infatti, non è sempre facile ottenere informazioni sulla provenienza di materiale e prodotti, ed i sistemi di auditing sono spesso fallimentari. Gran parte della responsabilità risiede nelle autorità cinesi, che impediscono di portare a termine investigazioni trasparenti e oggettive da parte di enti terzi.

Nonostante questo, crediamo che le aziende internazionali debbano ritenersi responsabili di ciò che accade nelle proprie filiere di produzione, e quindi provvedere ad accertarsi, tramite tutti i mezzi a loro disposizione, che non vi siano violazioni di diritti umani in nessuna fase di produzione – nei casi in cui non sia possibile ottenere verifiche complete, suggeriamo di cessare immediatamente le relazioni commerciali con tali fabbriche.

4- Qual è stata la reazione internazionale rispetto alla questione “cotone dello Xinjiang”? Quali potranno essere le conseguenze nelle relazioni internazionali cinesi?

Più recentemente, l’attenzione è ricaduta sulla produzione del cotone, in particolare grazie ad un nuovo rapporto pubblicato dal ricercatore tedesco Adran Zenz, “Coercive Labor in Xinjiang: Labor Transfer and the Mobilization of Ethnic Minorities to Pick Cotton“. Questo, insieme al lavoro di numerosi altri studiosi e giornalisti, ha rianimato l’attenzione non solo di tutti i media internazionali, ma anche di numerosi governi esteri, i quali si sono uniti agli Stati Uniti nel denunciare le violazioni dei diritti umani dello Xinjiang.

Il Partito Comunista Cinese (PCC) ha reagito in maniera molto difensiva, mobilitando il proprio sistema di propaganda per smentire tutte le accuse, senza però fornire alcune prove contro l’esistenza di campi di detenzione e sfruttamento. Questo purtroppo ha intensificato i già difficili rapporti tra la Cina e le potenze occidentali, Europa e Italia incluse, portando a numerosi tit for tat di attacchi diplomatici, sanzioni e coercizioni economiche. Nel caso dell’Unione Europea, è importante notare un decisivo cambio di posizione nei confronti della Cina, una posizione che sempre di più tende a denunciare le ingiustizie perpetrate dal PCC e ad essere più cauta nello stabilire relazioni economiche potenzialmente problematiche con la Cina.

5- Hacker cinesi hanno usato dei finti account Facebook per tracciare la minoranza  uigura anche al di fuori dei confini nazionali; un software di riconoscimento facciale è stato utilizzato per identificare e tenere sotto controllo gli uiguri. Come viene utilizzata la tecnologia nella questione uigura?

La tecnologia è da tempo lo strumento principale che il Partito usa per monitorare e perseguitare le minoranze etniche, all’interno e all’esterno del Paese. Soprattutto tramite l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, diversi software di riconoscimento facciale, la collaborazione tra compagnie leader nel settore e l’apparato di sicurezza statale, un sistema chiamato “Grid Management“, ma anche, come accennato sopra, database che collezionano il DNA di milioni di persone, e telecamere e stazioni di polizia installate ovunque.

Questi sono solo alcuni esempi di come il governo abbia creato uno stato di sorveglianza nel Xinjiang – e che adesso sta esportando anche in altre regioni. I cittadini ricevono regolari visite domiciliari da parte di funzionari del PCC e della polizia, i quali sono in carica di sorvegliare e riportare ogni minimo “segnale” che i residenti non stiano obbedendo alle linee di partito. La lista di “cose illegali” continua a crescere, e persino una barba un po’ più lunga può provocare il sospetto delle autorità. Tutte le informazioni raccolte vengono caricate su una piattaforma online tramite un’app chiamata IJOP. Per le strade, i cittadini vengono monitorati ovunque da telecamere di sicurezza che coprono virtualmente qualsiasi angolo di vita pubblica. Le autorità sentono e vedono tutto, grazie alla tecnologia, che gli ha permesso di costruire nello Xinjiang une vera e propria prigione a cielo aperto.

 

Per ulteriori approfondimenti sulla questione Uigura: intervista a Giulia Sciorati