Identità Ainu: intervista a Sabrina Battipaglia
– Federica Galvani –
Chi sono gli Ainu? Quale è la loro identità? Quale la loro storia?
Con Sabrina Battipaglia – esperta della cultura Ainu – abbiamo parlato del popolo indigeno del nord del Giappone, del loro doppio percorso di preservazione e reinvenzione della propria cultura e della rivendicazione dei propri diritti.
1) Perché in Giappone l’omogeneità etnico-culturale e persino razziale, spesso troppo palesemente ostentata dalla società di maggioranza, dai politici conservatori e da un’abbondante produzione storiografica, è in effetti più un mito che una realtà?
Era il 1986 quando l’allora primo ministro Yasuhiro Nakasone definì il Giappone “una nazione omogenea”, in cui non esisteva la discriminazione semplicemente perché non esistevano minoranze.
Giichi Nomura (avvocato e attivista Ainu), sull’Asahi Shinbun, come rappresentante del popolo Ainu chiese espressamente al primo ministro di riconoscere l’esistenza di questa minoranza in Giappone e di abolire l’idea fallace di un paese mono-etnico. La forte reazione degli Ainu all’affermazione del primo ministro potrebbe essere vista alla luce della lunga storia di discriminazione e di oppressione. Oggigiorno, l’identità Ainu è cambiata a causa dello stereotipo giapponese che li vede come un certo numero di persone che abitano i villaggi turistici.
Gli Ainu si sono visti attribuire l’etichetta di “assimilati” prima e di “attrattiva turistica” in seguito. Durante la fase di assimilazione forzata erano individui “passivi”. Sono diventati “attivi” successivamente partecipando cioè al processo di recupero, di trasformazione e di diffusione di parte del proprio patrimonio culturale. Porte di accesso verso questo mondo sono ad esempio i villaggi ricostruiti a scopo turistico presenti sull’isola di Hokkaidō.
Segnali concreti arrivano, da parte del governo giapponese, in questi ultimi anni con il riconoscimento seppur parziale nel 2008, e un riconoscimento a tutti gli effetti nel 2019.
2) Chi sono gli Ainu? Quale è la loro identità? La cultura oggi è ancora evidente?
Gli Ainu costituiscono un gruppo di popolazioni stanziate dagli inizi dell’epoca moderna nella penisola della Kamchatka, nell’isola di Sachalin, nelle Curili e nell’Hokkaidō. La parola “Ainu” può essere tradotta come “essere umano”, usata per distinguere le entità che non appartengono né al mondo delle divinità, né al mondo degli animali. Tradizionalmente essi vivevano nei loro villaggi detti nella lingua aborigena kotan , dislocati nelle valli fluviali o lungo la costa dove il cibo risultava più facilmente raggiungibile. La casa detta chise, fatta di corteccia e foglie di bambù, era considerata prevalentemente un luogo di adorazione dei kamui (divinità). Essa si presentava come una grande stanza nel cui centro era posizionato il camino. Tra gli edifici attigui alle case vi erano i servizi igienici, il pu, ossia il magazzino per la conservazione degli alimenti, l’heper-set, la gabbia dell’orso e il nusa o altare sacro, importantissimo per le cerimonie. La gabbia serviva per ospitare l’orso per poi sacrificarlo durante la più importante delle cerimonie, lo lyomande o “sacro invio dell’orso”, che fungeva da messaggero e il cui compito era di comunicare alle divinità quanto gli Ainu fossero stati amorevoli e attenti con lui, così da riceverne protezione. Qualsiasi gesto nella vita quotidiana era preceduto o seguito da offerte di inau (bastoncini di legno con trucioli) e da preghiere. Per quanto riguarda la manifattura, le arti a cui da sempre si dedicano sono la lavorazione del legno e il ricamo. La musica poi è stata un sottofondo delle loro vite, con o senza danze, con o senza strumenti musicali (di cui i più noti sono il tonkori, una sorta di chitarra e il mukkuri una sorta di arpa a bocca).
La lingua Ainu era priva di un sistema di scrittura e, di conseguenza i racconti, le leggende venivano trasmessi oralmente attraverso il genere più diffuso detto yukar. Mi piace immaginare il divulgatore di storie, un ekashi o una fuchi, un anziano o una anziana del villaggio che trasmettevano gli antichi saperi intorno al fuoco, mescolando di tanto intanto la cenere e tramandando nel buio delle notti tutto quanto era possibile della loro cultura. A seguito dell’assimilazione forzata, si è assistito prima ad un divieto di divulgare la propria cultura tradizionale, poi ad una lenta restituzione caratterizzata da un processo di trasformazione della stessa per fini turistici. Abbigliati con il tradizionale attush (l’abito realizzato con corteccia di olmo) e ingioiellati (con orecchini, collane, fasce sulla fronte) si esibiscono in performance di danza e musica, propongono workshop di ricamo, di intaglio del legno, di preparazione del cibo tradizionale, creando così il fenomeno del revival culturale, innescando un processo di riconsegna delle radici e degli antichi valori. Questa restituzione però si deve combinare alla modernità e per attuarla è necessaria una trasformazione, scendere a compromessi e trovare un nuovo linguaggio comunicativo. Tutto questo processo ovviamente risulta estremamente complesso e in continua evoluzione.
3) Cosa è cambiato per queste popolazioni indigene dopo la Restaurazione Meiji (1868) e la sua aggressiva politica di colonizzazione e sviluppo?
Durante il periodo Tokugawa (1603-1868) prima e l’epoca Meiji (1868-1912) in seguito, i giapponesi imposero alle comunità Ainu una serie di riforme tra cui l’assimilazione forzata. La caccia e la pesca vennero vietate e gli Ainu si videro costretti ad abbandonare quelle attività che avevano dato loro sostentamento fino a quel momento, vedendosi privati a poco a poco del proprio patrimonio culturale. In seguito, essi attuarono un meccanismo di negazione delle proprie origini, della propria appartenenza etnica come modalità per sfuggire alla discriminazione.
Nella Costituzione del 1889 gli Ainu non erano esplicitamente menzionati, ma rientravano genericamente tra i sudditi. Nel marzo del 1899, entrò in vigore la “Former Aborigines Protection Act” ossia la Legge per la protezione dei nativi, con la conseguente ricollocazione economica, la formazione agricola, i piani per l’educazione, l’istruzione, l’assistenza e le cure mediche. Vennero assegnati loro alcuni ettari di terra e attrezzi per coltivarla, gli uomini, da cacciatori-raccoglitori, si ritrovarono a lavorare nei campi, nelle industrie della pesca e nella ferrovia; le donne assunsero il ruolo di ancoraggio della famiglia, che prevedeva il lavoro agricolo, l’educazione dei figli e altro ancora. Tutto ciò però non bastò per il loro sostentamento, così ben presto le nuove situazioni che vennero a crearsi furono di eccessiva povertà e di rifugio nell’alcool.
Nel maggio del 1997 il governo giapponese approvò la Law for the promotion of the Ainu culture and for the dissemination and advocacy for the traditions of the Ainu and the Ainu culture, conosciuta anche come “Ainu Cultural Promotion Act (ACPA), legge che abolì le disposizioni della legge del 1899, ancora in vigore. Nello stesso anno nacque la FRPAC (The Foundation for Research and Promotion of Ainu Culture) con l’obiettivo di promuovere la cultura Ainu. Grazie all’impegno degli attivisti Ainu mossi dalla forza rivendicatrice delle proprie origini da un lato e dalle spinte dell’ONU dall’altro (l’ONU nel 2001 sollecitò lo Stato al riconoscimento degli Ainu come popolazione indigena, a seguito della comprovata presenza di discriminazioni), nel 2007 venne enunciata la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni, che sancì il diritto al mantenimento dell’identità, della lingua e della formazione dei popoli autoctoni. Oggigiorno per fortuna siamo lontani dagli anni dell’assimilazione forzata e della pesante discriminazione.
4) La minoranza Ainu tutt’oggi subisce delle discriminazioni?
La parola Ainu, come ho già menzionato, nella lingua aborigena significa “essere umano”, ma in lingua giapponese “inu” significa “cane”. Ciò in passato è stato oggetto di una forte discriminazione verbale: alla vista di un Ainu si associava l’espressione “Ah un cane!” sfruttando il gioco di parole. Nel marzo 2021 ha fatto notizia che un comico avesse utilizzato per scherzo questa espressione a seguito della visione del documentario “Future is mine” di Rie Kayano. Per scherzo o mancanza di conoscenza, un’affermazione del genere ha il potere di riaprire ferite e riportare alla mente situazioni passate davvero difficili.
Durante gli anni dell’assimilazione forzata, essi vennero censiti come “residenti discendenti degli Ainu”, in base alla discendenza familiare e all’aspetto fisico. L’atteggiamento di molti fu quello di negare la propria identità per evitare la discriminazione razziale. Dichiararsi Ainu voleva dire l’attribuzione di aggettivi come “inferiore”, “ignorante”, “sudicio”. Il Giappone si dichiarò “nazione di un solo popolo”, ma paradossalmente, gli Ainu soffrivano la discriminazione razziale e la loro esistenza veniva negata. Questa situazione rimase stabile fino agli anni ‘70, quando nuova forza venne trovata nella voce delle nuove generazioni di attivisti Ainu. Il loro impegno fu all’insegna di una ripresa dell’autocoscienza Ainu di essere culturalmente differenti e del recupero della dignità come condizione indispensabile della lotta contro l’emarginazione tanto materiale quanto morale.
La situazione attuale può dirsi diversa rispetto al passato, poiché oggi il dialogo tra il gruppo maggioritario e la minoranza etnica è mutato. Gli Ainu oggi esprimono più serenamente le proprie origini, vogliono comunicare il proprio patrimonio culturale, partecipandone attivamente alla diffusione in forme diverse, sia all’interno che all’esterno della macchina turistica. Oggi c’è una legge che li tutela e che dà loro speranza. Mi auguro, dunque, che il patrimonio culturale Ainu possa essere espresso appieno così come l’orgoglio delle proprie origini possa essere tramandato senza alcun timore alle generazioni future.
5) Di recente è stata depositata alla Dieta giapponese una proposta di legge che, per la prima volta, riconosce la popolazione Ainu come indigena. Cosa ne pensa a riguardo?
La risposta a questa domanda richiede di fare qualche passo indietro. Nel 2008 in occasione del G8 tenutosi sul lago Tōya in Hokkaidō, dal 7 al 9 luglio, centinaia di rappresentanti da tutto il mondo si riunirono per discutere di diritti umani delle minoranze, ma soprattutto per proporre una “via indigena” alla sostenibilità, affrontando temi diversi quali i cambiamenti climatici, l’emergenza alimentare, la crisi energetica, la povertà, questioni queste che si intrecciano con i diritti calpestati di chi vive nelle “riserve indiane” dei cinque continenti. In realtà, a quel tempo fondamentali furono le spinte del G8 da un lato e dell’Onu dall’altro, ai fini della risoluzione adottata dal Parlamento giapponese, nel 6 giugno 2008. Si è trattato di un provvedimento importante, ma da accogliere con cautela, poiché dal punto di vista costituzionale non vi è stato un riconoscimento ufficiale. Gli Ainu confidarono nell’impegno costante del governo e delle associazioni. Nel 2019 un altro importante passo avanti è stato compiuto: oltre ad un riconoscimento degli Ainu come popolazione indigena, il governo giapponese ha dichiarato di impegnarsi su vari fronti tra cui l’istituzione di un ufficio per la promozione degli Ainu, la definizione di linee guida generali per progetti atti a promuovere la cultura, l’industria e il turismo degli Ainu, e la distribuzione di sussidi per i vari progetti futuri. Un esempio relativo a quest’ultimo punto è il nuovo museo “Upopoy” inaugurato nel 2020.
Secondo alcuni studiosi, queste iniziative da parte del governo sono sempre state prese in prossimità di momenti di grande visibilità del Giappone sul piano internazionale: il G8 del 2008 da un lato, i Giochi Olimpici che si sarebbero dovuti tenere nel 2020 dall’altro.
Poco distante dal nuovo Museo “Upopoy” è stato costruito anche un mausoleo col fine di riunire tutti gli scheletri Ainu trafugati nel corso del tempo dai ricercatori e dispersi nelle varie Università del Giappone per poter comprendere la loro origine. Questa riunificazione in un unico edificio può essere anch’essa riconducibile al processo di “restituzione”. Mi piace credere che la verità stia nel mezzo, non del tutto una mossa politica, ma l’aver gettato un ponte per avvicinarsi maggiormente alla cultura “altra” e per poter migliorare un dialogo che non è stato dei più semplici in passato.
6) Nelle sue ricerche si è concentrata sulla parte di rappresentazione della cultura Ainu nei musei e nei villaggi ricostruiti. I villaggi Ainu sono un’attrazione turistica già a fine ‘800-inizi del ‘900. Nel libro “Race, Resistance and the Ainu of Japan” Richard Siddle dice che già negli anni ’30 i villaggi Ainu avevano un’industria del turismo organizzata. Dice anche che questo permetteva ad alcuni Ainu di poter guadagnare qualcosa da vivere e di poter raccontare ai visitatori la loro storia e la loro cultura ma, al tempo stesso, serviva per perpetuare l’idea degli Ainu come primitivi VS i giapponesi civilizzati. Si ritrova in questa affermazione?
L’emergere del turismo organizzato è profondamente connesso ai processi di espansione coloniale. Dopo l’incorporazione dell’Hokkaidō nello stato giapponese dal 1868, l’isola divenne il sito di insediamenti coloniali e di sperimentazioni politiche. A partire dal 1880, assieme all’idea di promuovere il nuovo territorio con le sue bellezze paesaggistiche vennero inseriti gli Ainu, ma come attrazione turistica. Una divisione dell’esercito era presente per sorvegliare la zona, per predisporre il commercio di prodotti, per organizzare le prime dimostrazioni di intarsio del legno e di ricamo. A questo punto gli artigiani Ainu si videro dinanzi una possibilità della quale avrebbero potuto approfittare da un punto di vista economico, così nel 1900 venne aperto il primo negozio di artigianato a Chikabumi (provincia di Asahikawa). Le autorità giapponesi ricavarono notevoli profitti da questo tipo di commercio e gli Ainu si sentirono spinti a produrre di più per soddisfare la domanda sempre crescente, oltre a cercare di variarne la produzione. Dagli anni Venti in poi i turisti mostrarono interesse per le loro sculture, facendo dell’orso una figura esotica da acquistare come semplice souvenir. L’esperimento ebbe un tale successo che presto la comunità di artigiani di Chikabumi divenne rinomata e a partire dagli anni ‘30 la domanda divenne tale che i migliori scultori poterono trarne dei vantaggiosi profitti in pochi anni. Questa situazione convinse anche gli Ainu del Nibutani Kotan a Biratori, a creare le loro sculture su vasta scala. Più tardi la seconda guerra mondiale rallentò temporaneamente queste attività, ma la massiccia presenza delle forze armate dell’occupazione americana sul territorio giapponese, rappresentò un nuovo mercato per gli Ainu che produssero grosse quantità di sculture in legno per soddisfare la domanda dei soldati in cerca di souvenir tipici.
Il Giappone negli anni successivi iniziò a sviluppare una politica turistica consapevole, che si concentrava non solo sul turista come fonte di profitti commerciali, ma anche sul turismo visto come una modalità di “presentare” il Giappone sia ai propri cittadini che al mondo esterno. Ufficialmente, tutto ciò che era Ainu (abitazioni, vestiti, cerimonie ecc), era visto come “primitivo”, in contrasto con l’immagine di esportazione desiderata del Giappone come di paese “civilizzato”. Il boom del turismo in Hokkaidō intorno agli anni ’70, fece molto riflettere. Da un lato la riflessione era sull’appropriazione indebita dei simboli Ainu da parte degli operatori turistici, dall’altro gli Ainu ridefinirono il rapporto con i turisti e i ricercatori non Ainu. Oggigiorno, la rappresentazione degli Ainu, ma più in generale del primitivo è cambiata. Si parla sempre più spesso di ecologia, poiché la società moderna prende le distanze dalla natura, così l’altro in precedenza definito “primitivo”, ne emerge come guardiano della stessa.
7) Upopoy (National Ainu Museum and Park) ha aperto le sue porte nel luglio del 2020. Un progetto da 164 milioni di euro che il governo giapponese ha deciso di realizzare seguendo il motto “Cantiamo insieme per l’armonia etnica”. Lo scopo è quello di rivitalizzare la cultura Ainu. Questo progetto, però, non è piaciuto a tutti gli Ainu e un gruppo di leader Ainu si è opposto al progetto dicendo che non vogliono un parco a tema ma delle scuse ufficiali da parte del governo giapponese per le ingiustizie perpetrate verso il popolo Ainu. Secondo lei è effettivamente un passo in avanti per favorire la rinascita della cultura Ainu o, invece, è un modo per sfruttare gli Ainu e le loro tradizioni come risorsa per il turismo nazionale?
Nel 2020 si è assistito alla inaugurazione dell’importante progetto museale nella città di Shiraoi, in Hokkaidō. Sulla stessa area sorgeva, fino al 2018, il villaggio Poroto Kotan, il quale è stato completamente smantellato e l’area interamente bonificata per fare posto a questo nuovo e ambizioso progetto (la cui apertura era prevista per il 24 aprile 2020, ma a causa del Covid-19 è stata posticipata al 12 luglio 2020). E’ il primo museo nazionale dedicato esclusivamente alla cultura Ainu, in cui tutto è a tema: collezioni di abiti, manufatti lignei, strumenti musicali, ricamo tradizionale, inoltre spettacoli di danza e musica, workshop di ricamo, di intaglio del legno, degustazioni di cibo e bevande e tanto altro.
I gruppi Ainu contrari a questa iniziativa non sono una novità poiché, le tensioni tra il gruppo maggioritario e gli Ainu ci sono sempre state. Si può affermare che c’è stata e continua ad esserci una fetta del popolo Ainu che è entrato a far parte della cosiddetta macchina turistica “accettando” il passato, guardando avanti e partecipando attivamente alla promozione della propria cultura (nelle varie forme che possiamo vedere ad esempio nei villaggi ricostruiti). E qui mi collego al fenomeno dell’etno-turismo che presenta il vantaggio di recuperare parte della propria cultura tradizionale, di rinnovarla, di trasformarla, attraverso una insita potenza generatrice che stimola la ricerca attenta dei rituali e degli oggetti tradizionali, coadiuvando in tal modo la rivitalizzazione degli antichi saperi e supportando la formulazione delle rivendicazioni identitarie. Questo fenomeno può anche tradursi in un formidabile supporto socio-economico, poiché l’impulso delle economie locali può migliorare in modo considerevole la qualità della vita degli interessati, evitando anche la loro estinzione. C’è però chi non riesce o non vuole dimenticare il passato e dunque pretende scuse. Come in ogni relazione che si rispetti, ci sono diverse modalità per “disturbare” un rapporto e, diversi i modi e i tempi per chiedere scusa. Se l’oblio non basta, solo l’impegno nel tempo può offrire la possibilità di una migliore relazione, per il bene delle generazioni attuali e di quelle future. D’altronde, se il passato non può essere cambiato si può optare, invece, per creare un nuovo finale.
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