Not welcome: i migranti e il caso del Giappone
– Marco Milani –
I rifugiati e le loro forme di tutela
Leggendo i giornali o ascoltando le notizie in televisione, l’uso di parole come “profugo” o “rifugiato” è all’ordine del giorno, anche se esse non possono essere utilizzate come sinonimi in ambito giuridico. Infatti, il primo termine non ha alcuna valenza legale e fa riferimento a chi rimane senza casa in seguito a un disastro naturale, come un’alluvione o un terremoto.
Il secondo, invece, viene riconosciuto dal diritto internazionale e riguarda tutte le persone che cercano asilo in uno Stato diverso dal proprio perché tentano di scappare da situazioni pericolose, quando la loro vita è minacciata per motivi legati alla razza, alla religione, all’appartenenza a un determinato gruppo etnico o alle idee politiche.
Questa definizione è stata inserita nella Convenzione per la Protezione dei Rifugiati, che risale al 1951 e che nacque, in origine, con riferimento ai richiedenti asilo la cui condizione era una conseguenza della Seconda guerra mondiale. Successivamente, nel 1967, venne redatto un Protocollo aggiuntivo, che eliminava i suoi vincoli temporali, rendendola applicabile ai rifugiati di tutte le guerre.
Nella tutela delle persone che godono di questo status interviene l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (il cui acronimo è ACNUR in italiano o UNHCR in inglese), un organo sussidiario dell’ONU fondato nel 1949 allo scopo di supportare le persone che richiedono questa forma di protezione. Inizialmente, aveva un mandato provvisorio fino al 1952 ma, in seguito, esso cominciò a essere prorogato a intervalli di tre anni fino a quando, nel 2003, divenne permanente.
Quando un richiedente asilo cerca protezione entro i confini di uno Stato (o in un’ambasciata), questa non può essere rifiutata dall’autorità: questo principio si definisce di non-refoulement, ed è oggi una delle più importanti norme consuetudinarie sulle quali si basa il diritto internazionale.
Il Giappone e il diritto d’asilo
I Paesi dell’Estremo Oriente sono stati tra gli ultimi al mondo a ratificare la Convenzione del 1951, dato che il fenomeno dei richiedenti asilo era meno diffuso in quest’area del mondo. Il Giappone lo ratificò nel 1981, classificandosi come terzo Paese in Asia (insieme alla Cina e alla Corea del Sud), ma ottantaquattresimo a livello mondiale. Questa scelta fu subordinata all’alto numero di persone in difficoltà causato dalla guerra combattuta tra il Vietnam e gli Stati Uniti dal 1965 e al 1975.
Dal punto di vista formale, il Giappone si dichiarò neutrale nel conflitto che infiammò l’Indocina, ma non lo era affatto, a causa della sua alleanza con gli Stati Uniti. Questi ultimi, infatti, organizzarono alcune operazioni militari dirette verso il Sud-est asiatico utilizzando le proprie basi militari situate in Giappone. Per tale ragione il ruolo giapponese può difficilmente essere considerato neutrale, anche perché alcuni esponenti del mondo politico dell’epoca avevano dichiarato, in modo più o meno marcato, l’appoggio agli alleati americani.
Tuttavia, il Giappone elargì consistenti fondi a favore dei Paesi del Sud-est asiatico subito dopo la fine della guerra e si mosse per stabilire velocemente delle relazioni diplomatiche con il nuovo governo vietnamita.
Dal punto di vista legale, il Giappone era completamente impreparato ad accogliere i richiedenti asilo provenienti dall’area indocinese: fino al 1978, la legge prevedeva che il Paese non potesse nemmeno essere considerato meta permanente di insediamento, ma esclusivamente come territorio di transizione dal quale un migrante poteva essere poi rimpatriato in uno Stato terzo. Tuttavia, il tempo necessario affinché ciò avvenisse era, in media, di sette anni.
Nel 1978 entrò in vigore una nuova legge che prevedeva la possibilità di stabilirsi permanentemente nel Paese e i richiedenti asilo cominciarono, quindi, a ottenere lo status di denizers, o “residenti permanenti”. Inoltre, vennero istituiti numerosi campi dedicati all’accoglienza dei rifugiati, supportati da alcune importanti Organizzazioni non governative (ONG), come la Croce Rossa Internazionale. Pertanto, solo all’inizio degli anni Ottanta, il Giappone cominciò ad accogliere i migranti in difficoltà e destinò circa 250 milioni di dollari ai Paesi colpiti dalla guerra.
Ciononostante, la generosità giapponese nell’elargire aiuti al Sud-est asiatico sollevò numerose critiche a livello internazionale e fu considerata come un pretesto per evitare di fornire una forma più coinvolgente di supporto, per esempio mediante l’accettazione di una quota maggiore di richieste. Infatti, durante e dopo il conflitto scapparono dall’Indocina circa 2 milioni di persone, delle quali 1.2 milioni decisero di recarsi negli Stati Uniti. Di contro il Giappone, dal 1975 al 1997, accolse poco più di 10.000 individui, circa lo 0.5% del totale di coloro che erano fuggiti durante e dopo l’evento bellico, nonostante la vicinanza geografica.
Nei decenni successivi poco è cambiato in tema di politiche migratorie in Giappone. I dati riguardanti il numero di rifugiati accettati negli ultimi quattro anni sono veramente allarmanti: nel 2014 sono state accolte 11 persone, 27 nel 2015, 28 nel 2016 e 20 nel 2017. Le quote dell’ultimo anno sono diminuite poiché, secondo quanto affermato dagli ufficiali governativi, il numero di richieste falsificate è fortemente aumentato e, di conseguenza, anche la severità nella determinazione della presenza dei requisiti necessari per ottenere lo status.
Solo nel 2016 ci sono state circa 11.000 domande e l’approvazione di solo 28 di esse sancisce un rifiuto del 99%. Lo scorso anno sono state 19.628 e, rispetto al precedente, ne sono state approvate otto in meno.
Il Giappone viene criticato anche per la provenienza delle persone la cui richiesta viene accolta; la quasi totalità proviene, infatti, dal Nepal, dalle Filippine o dall’Indonesia. Così, oltre che per i bassi numeri, il Paese viene accusato per la sua presunta preferenza verso i vicini Stati asiatici, culturalmente più affini.
Per esempio, nel 2016 non è stato accolto alcun richiedente asilo siriano, nonostante la Siria sia colpita dal 2011 da una guerra civile. Dal suo scoppio, ci sono state solo 69 richieste verso il Giappone e, di queste, ne sono state accolte solo 11.
Per questo molte Organizzazioni non governative, come la JAR (Japan Association for Refugees), stanno facendo pressione affinché il governo riveda le proprie politiche in tema di immigrazione, sopratutto per quanto riguarda i lavoratori irregolari. Secondo i media nipponici, alcuni richiedenti asilo provenienti dal Medio-oriente sono stati scoperti a lavorare illegalmente a Tōkyō in alcuni cantieri finanziati dal governo in vista delle Olimpiadi che si terranno nel 2020 nella capitale giapponese. Alcuni di essi sono stati anche intervistati, e ciò ha permesso di scoprire le pessime condizioni dei loro contratti: vengono pagati in contanti e in nero, possono essere lasciati a casa senza preavviso e non hanno copertura assicurativa. Quest’ultimo aspetto è particolarmente grave in un Paese nel quale la sanità è privata e, in caso di infortunio, è necessario spendere delle cifre considerevoli per ottenere le cure necessarie.
Molte aziende in Giappone sono pienamente consapevoli di impiegare manodopera illegalmente residente, così come lo sono del rischio di una pesante multa.
Il caso Kazankiran e le dispute ministeriali
Un caso salito alle cronache nazionali e internazionali avvenne nel 2005 quando il Giappone rimpatriò forzosamente due rifugiati provenienti dalla Turchia, Ahmet Kazankiran e il figlio Ramazat.
Entrambi erano arrivati a Tōkyō con l’intera famiglia qualche anno prima e il padre aveva poi lasciato il Giappone, dichiarando di tornare in Turchia. Mentre era all’estero, il governo aveva avviato delle indagini, scoprendo che, in realtà, l’uomo si era recato in Inghilterra. Dopo essere tornato in Giappone, Kazankiran e il figlio furono trattenuti dalle autorità dopo essere andati in un ufficio della prefettura di Tōkyō per ottenere un permesso speciale, che serviva loro perché i richiedenti asilo non possono spostarsi dalla prefettura nella quale risiedono senza una specifica autorizzazione, motivo per il quale i due vi si erano recati quel giorno. Poche ore dopo, il Ministero della Giustizia ordinò il rimpatrio forzato nel Paese d’origine, violando il principio di non-refoulement. La situazione era ulteriormente peggiorata dal fatto che i restanti membri della famiglia – la moglie e le due figlie – rimasero a Tōkyō. Il nucleo si ricongiunse in Australia qualche anno dopo, fatta eccezione per il figlio maggiore che, rimasto in Turchia, stava svolgendo il servizio militare e che raggiunse gli altri poco dopo; oggi gestiscono tutti insieme un ristorante nella città di Auckland.
La vicenda fu particolare perché fece emergere lo scontro tra il Ministero della Giustizia cioè quello che emise l’ordine di rimpatrio, e quello degli Affari Esteri , che era, invece, contrario. Il diverso approccio al problema dei richiedenti asilo era emerso già all’inizio degli anni Ottanta, quando il governo dovette esprimersi in merito alla ratifica della Convenzione per i Rifugiati del 1951. Se il Ministero degli Esteri si dimostrò favorevole fin da subito, quello di Giustizia non lo era per due motivi: da un lato era preoccupato per la scarsa propensione giapponese al multiculturalismo e, dall’altro, temeva un forte incremento delle spese burocratiche che lo Stato avrebbe dovuto sostenere per adeguare le leggi di previdenza sociale anche ai migranti.
Il problema principale è legato al fatto che, nonostante la posizione predominante fu, all’epoca, quella del Ministero degli Affari Esteri, oggi è quello della Giustizia a scegliere se accettare o meno le domande al vaglio, e questo spiega perché ciò avvenga in misura così ridotta. È proprio a causa delle politiche adottate dal Ministero di Giustizia che l’impegno a livello statale va considerato piuttosto carente, mentre il Ministero degli Esteri ha dimostrato di attribuire una maggiore importanza agli attori della società civile e continua a intensificare i legami con essI attraverso dei programmi appositi: per esempio, manda annualmente alcuni dei suoi funzionari a svolgere dei tirocini presso alcune ONG che si occupano di rifugiati, allo scopo di capire a fondo i loro meccanismi di funzionamento e i problemi in cui possono incorrere i richiedenti asilo; inoltre, molte associazioni organizzano, a livello locale, dei corsi per l’insegnamento della lingua giapponese, o gratuitamente o dietro il pagamento di una tassa d’iscrizione simbolica, allo scopo di favorire l’integrazione, resa difficile dalla forte omogeneità culturale della società giapponese.
I rifugiati e i migranti: prospettive future
Da quanto è stato descritto finora, risulta chiaro che il Giappone sottovaluta enormemente il ruolo dell’immigrazione nella società.
In primis, i migranti fornirebbero manodopera a basso costo, che oggi sta fortemente scarseggiando, e ciò è stato dimostrato dalle assunzioni di operai in nero nei cantieri di Tōkyō. La regolarizzazione di questo fenomeno consentirebbe, da un lato, di tutelare i lavoratori in caso di infortunio e, dall’altro, di supportare la costruzione delle strutture che ospiteranno le Olimpiadi nella capitale nel 2020.
In secondo luogo, i migranti consentirebbero di rallentare l’invecchiamento della popolazione, un problema particolarmente accentuato in Giappone e causato dalla crescita zero e dal tasso di natalità negativo. Secondo alcuni studi, il fenomeno è talmente accentuato che, in assenza di migrazioni, la popolazione giapponese sarebbe destinata a ridursi di un terzo entro il 2065.
Nonostante tutti i problemi che affliggono la società, il Premier Shinzō Abe non dimostra la sua preoccupazione: lo scorso ottobre è stato tenuto un meeting con il Presidente americano Donald Trump, in occasione del quale il leader giapponese ha ribadito il suo intento di proseguire con la politica nazionalista denominata “Japan First”, basata, per esempio, sull’incremento dell’occupazione femminile; così facendo ha dimostrato di voler continuare a seguire una linea politica da sempre fortemente filo-americana.
Inoltre, un altro scenario fonte di preoccupazione secondo il Primo ministro giapponese è quello nordcoreano: nell’ultimo anno, gli esperimenti missilistici da parte del governo di Pyongyang sono sempre più frequenti e, se dovesse scoppiare un conflitto, il Giappone rischierebbe l’arrivo di una quota di richiedenti asilo piuttosto significativa, persone alle quali non sarebbe in grado di fornire il supporto adeguato per via delle carenze legislative.
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