Rassegna settimanale 11-17 settembre: Sud Est Asiatico
11 settembre, Birmania – Il trattamento dei Rohingya è “pulizia etnica da manuale” secondo un rapporto ONU
Il modo in cui lo stato birmano tratta la minoranza Rohingya sembra essere un “esempio da manuale” di pulizia etnica secondo il massimo rappresentante del consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
In un discorso al consiglio ONU per i diritti umani di Ginevra, Zeid Ra’ad Al Hussein ha denunciato le “brutali operazioni di sicurezza” contro i Rohingya dello Stato di Rakhine che ha definito “chiaramente sproporzionate” rispetto alle insurrezioni dello scorso ottobre.
Più di 310.000 persone si sono rifugiate in Bangladesh nelle ultime settimane, e molti altri starebbero aspettando di attraversare il confine.
“Mi appello al governo per porre fine alle sue crudeli operazioni militari, prendere le proprie responsabilità per tutte le violenze inflitte e di cessare ogni forma di discriminazione nei confronti della popolazione Rohingya” ha dichiarato Hussein. “La situazione sembra un esempio di pulizia etnica da manuale”.
Con l’aumentare della pressione internazionale, il ministero degli affari esteri birmano – diretto da Aung San Suu Kyi, il leader del paese – ha dichiarato condividere le preoccupazioni che riguardano gli spostamenti forzati e la sofferenza di “tutte le comunità” negli ultimi episodi di violenza.
La dichiarazione non ha menzionato i Rohingya, non riconosciuti come un gruppo etnico all’interno del paese, ma si è riferito ad altre comunità dello Stato di Rakhine, inclusi altri gruppi musulmani, che secondo il ministero sono “tristemente ignorati dal mondo”.
Inoltre è stato precisato che le forze di sicurezza sono state addestrate “per agire con moderazione e prendere tutte le misure necessarie per evitare danni collaterali e ferire i civili”. Le violazioni dei diritti umani e altri crimini saranno trattati “secondo le più strette norme di legge”.
Le operazioni in corso contro la minoranza musulmana sono state innescate il 25 agosto dopo l’attacco di una ventina di posti di sicurezza, causando la morte di 12 persone, da parte di un gruppo di ribelli Rohingya.
Gruppi di milizia, le forze di sicurezza locali e l’esercito birmano hanno risposto con “operazioni di pulizia” che hanno spinto i rifugiati in Bangladesh e spostato decine di migliaia di persone all’interno dello stato birmano.
Il ministero degli affari esteri ha dichiarato che gli attacchi sono stati deliberatamente programmati per sabotare il rapporto dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. Il documento riguardava le possibili soluzioni per superare i decenni di tensioni tra i Rohingya e leader birmani.
Il rapporto, che a richiesta di Aung San Suu Kyi non menzionava direttamente i Rohingya, raccomandava al governo di mettere fine alle restrizioni che impediscono a questa comunità di partecipare alla vita politica del paese, di spostarsi liberamente e di ottenere la cittadinanza.
Domenica 11 settembre, il ministero degli affari esteri bengalese ha accusato il governo birmano di genocidio nei confronti dei Rohingya. Gli analisti di politica estera hanno dichiarato che le parole AH Mahmood Ali sono le più dure mai usate nei confronti del proprio vicino, e riflettono la frustrazione del paese nei confronti del continuo arrivo di rifugiati.
Lo scorso week-end, il Dalai Lama è stato l’ultimo premio Nobel per la pace a rompere il silenzio sulla crisi in corso, chiamando alle forze birmane in azione di “ricordarsi Buddha”.
Ali ha dichiarato ad alcuni diplomatici che secondo alcune fonti non ufficiali ammonterebbero a 3000 i Rohingya uccisi nello stato di Rakhine.
“La comunità internazionale sta chiamando l’accaduto un genocidio. Anche noi pensiamo che sia un genocidio” ha dichiarato Ali ai giornalisti. Inoltre il ministro ha dichiarato che il numero totale dei rifugiati Rohingya in Bangladesh è di 700.000. “E diventato un problema nazionale”.
Ali ha continuato spiegando che all’incirca 10.000 abitazioni sono state distrutte nello stato di Rakhine, una statistica impossibile da verificare visto che il governo ha vietato l’accesso all’area.
A Washington, l’amministrazione di Donald Trump ha rotto il silenzio sulla questione. La portavoce della Casa Bianca Sarah Huckabee Sanders non ha però menzionato i Rohingya direttamente e ha denunciato le violenze da entrambi i lati.
Sanders ha dichiarato: “Gli Stati Uniti sono profondamente preoccupati dalla crisi in corso in Birmania dove almeno 300.000 persone sono scappate dopo l’attacco di posti di sicurezza birmani del 25 agosto. Reiteriamo la nostra condanna contro questi attacchi e le violenze che hanno causato”.
Innumerevoli rifugiati in Bangladesh hanno reso conto degli incendi dolosi provocati dall’esercito birmano. Il gruppo Human Rights Watch ha dichiarato che le immagini raccolte dai satelliti hanno fornito le prove dei danni causati dagli incedi nelle zone urbane abitate dai Rohingya così come nei villaggi più remoti.
Lo stato birmano ha dichiarato mirare i ribelli armati, inclusi i combattenti del gruppo Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), il gruppo che ha rivendicato gli attacchi di agosto e che controllerebbe piccole aree dello stato di Rakhine.
Arsa, accusato di attaccare civili di credenze buddiste e hindu, ha chiesto per una “pausa umanitaria” di un mese per potersi concentrare sulla crisi dei rifugiati. La tregua è stata rigettata dalle autorità birmane che hanno dichiarato di non trattare con i “terroristi”.
L’International Organisation for Migration ha stimato che 313.000 Rohingya hanno superato il confine con il Bangladesh, facendo notare che il flusso di migranti sembrerebbe diminuire.
Da numerosi anni i Rohingya sono stati sistematicamente perseguitati da parte de governo birmano, che contrariamente alle prove storiche li definisce immigrati illegali provenienti dal Bangladesh e ne limita i diritti civili.
Le Nazioni Unite hanno definito le operazioni militari come possibili “crimini contro l’umanità”, ma la portata degli ultimi episodi – e le accuse che l’esercito birmano stia minando la frontiera – hanno portato a pensare che le forze dell’ordine stiano cercando di eliminare la popolazione Rohingya una volta per tutte.
Il Dalai Lama ha dichiarato che “queste persone che stanno perseguitando i musulmani dovrebbero ripensare a Buddha”, spiegando che “avrebbe sicuramente fornito aiuto a questi poveri musulmani. Lo penso sinceramente. È molto triste”.
La popolazione birmana è di maggioranza buddista ed è presente un diffuso disprezzo per i Rohingya. I nazionalisti buddisti insieme a dei monaci buddisti, hanno portato avanti una lunga campagna islamofobica, chiamando le autorità a cacciarli dal paese.
Aung San Suu Kyi è stata pesantemente criticata per il suo rifiuto di intervenire in supporto dei Rohingya.
Fonte: The Guardian
Link: https://www.theguardian.com/world/2017/sep/11/un-myanmars-treatment-of-rohingya-textbook-example-of-ethnic-cleansing
12 settembre, Birmania – L’economia della persecuzione Rohingya
Le ultime settimane sono state segnate da un’escalation di violenza nei confronti delle popolazioni Rohingya nei pressi di Rakhine, lo stato più povero della Birmania. Un’ondata di profughi sta cercando rifugio dalle atrocità – stanno scappando sia a piedi che con delle imbarcazioni in Bangladesh.
Le differenze etniche e religiose sono state ampiamente considerate come la causa principale delle persecuzioni. Negli ultimi tempi è diventato sempre più difficile credere che non ci siano altri fattori in gioco, specialmente se si considera che lo stato birmano contiene 135 gruppi etnici riconosciuti (i Rohingya sono stati rimossi da questa lista nel 1982).
Analizzando gli ultimi atti di violenza, la maggior parte dei media occidentali si sono concentrati sul ruolo dei militari e la figura del leader del paese Aung San Suu Kyi. Il suo status di premio Nobel per la pace è stato messo in discussione da quando sono emerse le prove delle atrocità in corso.
Suu Kyi si rifiuta di condannare la violenza mirata contro i Rohingya, perlomeno l’attenzione dei media si è finalmente concentrata sul dramma in atto.
Rimangono però tematiche del tutto ignorate. È indispensabile andare oltre le differenze etniche e religiose per capire le cause delle persecuzioni, violenze e profughi in fuga.
Dobbiamo considerare particolari interessi di ordine politico ed economico come fattori per spiegare lo spostamento di popolazione in Birmania, non solo dei Roghingya ma anche di altre minoranze come i Kachin, Shan, Karen Chin e Mon.
L’appropriazione di terreni e le confiscazioni sono comuni in Birmania. Non è un fenomeno nuovo.
Sin dal 1990 le giunte militare hanno confiscato territori di piccoli proprietari terrieri attraverso il paese senza nessuno tipo di compensazione e senza prestare attenzione a questioni etniche o religiose.
I territori sono stati recuperati per progetti di “sviluppo”, includendo espansioni di basi militari, estrazioni di risorse naturali, progetti agri culturali, infrastrutturali e turistici. Per esempio, nello stato di Kachin, i militari hanno confiscato oltre 500 ettari di territori per creare una miniera d’oro.
Questi progetti di sviluppo hanno forzato migliaia di persone spostarsi – sia all’interno della Birmania che nei paesi circostanti: Bangladesh, India e Tailandia – o li hanno forzati all’esodo via mare in Indonesia, Malesia e Australia.
Nel 2011 la Birmania ha istituito riforme economiche e politiche che hanno portato il paese ad essere battezzato “Asia’s final frontier” per via della propria apertura al capitale straniero. Poco dopo, nel 2012, gli attacchi violenti nei confronti dei Rohingya nello stato di Rakhine e, in minor misura, contro i Karen. Nel frattempo il governo birmano messe in atto diverse leggi riguardanti la gestione e la distribuzione delle terre coltivabili.
Queste misure sono state severamente criticate perché sospettate di aiutare i grandi gruppi a realizzare ingenti profitti da queste espropriazioni. Ad esempio, le multinazionali dell’agro-alimentare quali POSCO Daewoo si sono ferocemente fatte spazio in questo mercato, con l’accordo del governo.
La Birmania è situata tra due paesi che da tempo hanno adocchiato le sue risorse: Cina e India. Sin dagli anni 1990 alcune compagnie cinesi hanno sfruttato il legname, i fiumi ed i minerali nello stato di Shan, a nord del paese.
Questo risultò in violenti conflitti armati tra il regime militare e gruppi armati, tra i quali il Kachin Independence Organization (KIO) e loro alleati negli stati di Kachin e Shan.
Nello stato di Rakhine, gli interessi cinesi ed indiani fanno parte di una questione più ampia delle relazioni sino-indiane. Questi interessi riguardano principalmente la costruzione di infrastrutture e oleodotti nella regione. Questi progetti garantirebbero lavori, pedaggi per il transito e una parte del profitto dell’industria del petrolio e del gas per tutto l’intero paese.
Tra i numerosi progetti di sviluppo, un oleodotto costruito da gruppo China National Petroleum Company che connette Sittwe, la capitalo dello stato di Rakhine, a Kunming in Cina, è funzionante dal 2013. Gli sforzi per sfruttare il petrolio ed il gas birmano ed esportarlo a Guangzhou in Cina sono ben documentati.
Un altro oleodotto dovrebbe fornire del petrolio proveniente dal Medio Oriente, partendo dal porto di Kyaukphyu fino alla Cina. Tuttavia la Advisory Commission on Rakhine State, un organo neutrale, ha esortato il governo birmano a portare avanti un’approfondita valutazione d’impatto.
La commissione, infatti, ha riconosciuto che l’oleodotto mette le comunità locali a rischio. Ci sono importanti tensioni locali per via delle appropriazioni di territori, compensazioni economiche insufficienti, impatti ambientali e un’importante flusso di lavoratori stranieri a scapito di un aumento dei lavori per la gente del posto.
Intanto il porto in acque profonde di Sittwe è stato finanziato e costruito dall’India in quanto parte del progetto del Kaladan Multi-modal Transit Transport Project. L’obbiettivo è di connettere lo stato del Mizoram, a nord est dell’India, con il Golfo del Bengala.
Le aree costiere dello Stato di Rakhine sono chiaramente d’importanza strategica sia per l’India che per la Cina. Il governo birmano è perciò incentivato a ripulire l’area per preparare il terreno per degli sviluppi futuri e per aumentare la propria crescita economica.
Tutto ciò si inserisce nel più ampio teatro delle manovre geopolitiche. La possibilità di un’implicazione bengalese in questo scenario esplosivo è fortemente plausibile. In queste sfide tra potenze il costo delle vite umane è terribilmente pesante.
In Birmania, le vittime di queste espropriazioni, già in grande difficoltà, si ritrovano a dover vivere in condizioni ancora più precarie. Il trattamento dei Rohingya nello stato di Rakhine è l’esempio più lampante di un comportamento esteso a diverse minoranze.
Quando un gruppo viene emarginato ed oppresso è complicato non diventare vulnerabili e proteggere i propri diritti, inclusa la sua proprietà. Nel caso dei Rohingya, la possibilità di difendere la propria abitazione è stata annientata attraverso la revoca della loro cittadinanza birmana.
Dalla fine degli anni 1970 all’incirca un milione di Rohingya hanno lasciato la Birmania per fuggire le persecuzioni. Tragicamente vengono spesso emarginati anche nei paesi che li ospitano. In assenza di un paese che voglia prendersi le proprie responsabilità nei loro confronti sono spesso obbligati o incoraggiati a continuamente cambiare stato. I modi usati per forzare i Rohingya a questa continua migrazione li ha intrappolati in uno stato di grande vulnerabilità.
La tragedia dei Rohingya fa parte di un quadro più ampio, che attraverso oppressioni ed esodi di massa vede le minoranze birmane fuggire nei paesi limitrofi.
La rilevanza e la complessità del discorso etnico e religioso è innegabile. Non possiamo però ignorare il contesto politico ed economico, e le cause di tutto ciò sono passano spesso inosservate.
Fonte: Asian Correspondent
Link: https://asiancorrespondent.com/2017/09/rohingya-persecution-driven-economics-not-just-religious-hatred/#IfPD20aU5YWfmLfp.97
13 settembre, Filippine – Il congresso filippino taglia i fondi alla Commissione dei Diritti Umani
Il congresso filippino, controllato dal partito del presidente Rodrigo Duterte, ha approvato con un’ampia maggioranza un budget annuale di 1.000 pesos (19.51 dollari americani) per la Commissione dei Diritti Umani. Secondo il presidente della camera questa decisione è giustificata perché l’organo è “inutile”. “Se volete difendere i diritti dei criminali prendete il vostro budget dai criminali” ha dichiarato, “Perché dovreste ricevere soldi dal governo se non fate il vostro lavoro?”
Il nuovo budget rappresenta un’importante tagli di fondi considerando che i fondi per il 2017 ammontavano a 749 milioni di pesos. Secondo alcuni questa decisione sarebbe una forma di ritorsione nei confronti della commissione per essersi ripetutamente scontrata con il presidente sul tema della guerra contro la droga. L’organo si è infatti mostrato molto preoccupato per la politica di Duterte e per le migliaia di morti negli ultimi 15 mesi.
Il membro del congresso Edcel Lagman, opposto a questa decisione, ha dichiarato che ciò vuol dire “imporre la pena di morte ad un organo costituzionalmente creato ed affidato ad un ufficio indipendente”. Per entrare in vigore il budget dev’essere approvato anche dal Senato, ciononostante il presidente della commissione ha dichiarato che si appellerebbe alla corte suprema se necessario.
Fonte: The Straits Times
Link: http://www.straitstimes.com/asia/se-asia/philippine-congress-backs-annual-budget-of-just-s26-for-agency-probing-dutertes-drugs
14 settembre, Birmania – La Cina sostiene le operazioni militari nello stato di Rakhine
I media governativi birmani hanno riportato una notizia secondo la quale lo stato cinese sosterrebbe le operazioni in corso nei confronti dei ribelli Rohingya. Secondo quanto riportato dal giornale Global New Light, l’ambasciatore cinese avrebbe dichiarato che “La posizione della Cina per quanto riguarda gli attacchi terroristici a Rakhine è chiara, si tratta di una questione interna”. Inoltre avrebbe aggiunto “Il contro-attacco delle forze di sicurezza birmane contro i terroristi e il lavoro del governo per portare assistenza alla sua popolazione è accolta con profonda soddisfazione”
La Cina, in competizione con gli Stati Uniti, cerca di guadagnare una certa influenza sulla Birmania dal 2011, dopo che il paese sia emerso da 50 anni di controllo militare e di isolamento politico-economico. L’amministrazione Trump nel corso della settimana ha invece chiamato alla protezione dei civili.
Fonte: The Straits Times
Link: http://www.straitstimes.com/asia/se-asia/china-endorses-military-crackdown-in-rakhine-myanmars-state-media
15 settembre, Cambogia – Tensione tra Cambogia e USA
Lo stato cambogiano ha dichiarato di aver sospeso la cooperazione con gli Stati Uniti per cercare i resti di soldati americani morti durante la guerra del Vietnam. Il primo ministro cambogiano Hun Sen ha accusato gli Stati Uniti di complottare insieme al leader dell’opposizione per prendere il potere. Le accuse sono state rigettate dall’ambasciata statunitense. Il premier ha dichiarato che le ricerche potrebbero riprendere appena i legami tra i due paesi verranno restaurati.
La situazione sarebbe dovuta al rifiuto statunitense di rilasciare alcune visa a cittadini cambogiani dopo che la Cambogia si è rifiutata di estradare alcuni dei suoi cittadini in America per essere processati di crimini commessi sul suolo americano. Le relazioni tra i due paesi rimangono complicate dopo la guerra del Vietnam, conclusa nel 1975. Il premier cambogiano ha infatti dichiarato che gli Stati Uniti non si sono mai scusati per aver bombardato i paesi circostanti.
Fonte: Asian Correspondent
Link: https://asiancorrespondent.com/2017/09/us-suspension-on-visas-for-senior-officials-puts-cambodia-on-retaliation-mode/#52jtjKD6tpuhfrTB.97
16 settembre, Bangladesh – Il Bangladesh alza il tono contro la Birmania
La prima ministra bengalese Sheikh Hasinaha chiederà il sostegno della comunità internazionale per poter fronteggiare la crisi dei Rohingya durante il suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Sarebbero 400.000 i migranti che hanno attraversato la frontiera birmana negli ultimi mesi, saturando così le capacità dei centri di accoglienza già sotto pressione per le precedenti ondate migratorie.
Il governo bengalese ha convocato l’ambasciatore birmano per protestare contro le costanti violazioni del proprio spazio aereo e per aver minato la propria frontiera, uccidendo così numerosi Rohingya. Il ministero degli affari esteri ha dichiarato “Il Bangladesh esprime la sua preoccupazione per il ripetersi di questi atti provocatori e chiede alla Birmania di prendere misure immediate per porre fine a queste a queste violazioni”.
Il portavoce del governo birmano ha dichiarato che il governo avrebbe controllato queste informazioni aggiungendo che “in questo momento, i nostri paesi stanno fronteggiando una crisi di rifugiati. Dobbiamo collaborare nel migliore dei modi”. Sono decenni che il Bangladesh è alle prese con rifugiati provenienti dalla Birmania, dove vengono considerati come immigrati illegali e sono privati di cittadinanza.
Fonte: The Straits Times
Link: http://www.straitstimes.com/asia/se-asia/bangladesh-warns-myanmar-over-alleged-airspace-violations-amid-refugee-crisis
17 settembre, Filippine – L’esercito filippino riprende una base dell’ISIS a Marawi
L’esercito filippino ha catturato il centro di comando dello Stato Islamico nella città di Marawi dopo quattro mesi di duri combattimenti. Le forze di sicurezza hanno affrontato i ribelli in combattimenti molto violenti ed hanno lanciato diversi bombardamenti aerei per cercare di respingere i combattenti nemici. Il generale a capo delle operazioni Eduardo Ano ha dichiarato che “l’enorme avanzata ha indebolito il gruppo terrorista distruggendo il loro centro di comando” per poi aggiungere “Nel continuare le nostre operazioni di pulizia e controllo ci aspettiamo che il nemico ceda numerose altre posizione, ma lottando con vigore”.
Il conflitto in corso da più mesi ha causate numerose paure tra i paesi circostanti, tra le quali che lo Stato Islamico riesca a stabilire una base operativa nel sud-est asiatico. Centinaia di ribelli provenienti da tutto il mondo hanno cercato di prendere il controllo della città di Marawi, la capitale musulmana di un paese a maggioranza cattolica. Il presidente Rodrigo Duterte ha dispiegato migliaia di truppe e imposto la legge marziale su tutta l’isola di Mindanao mentre l’esercito ha lanciato un’intensa campagna militare con l’appoggio aereo degli Stati Uniti. Più di 800 ribelli, militari e civili sono morti dall’inizio del conflitto.
Fonte: The Straits Times
Link: http://www.straitstimes.com/asia/se-asia/philippine-army-captures-key-pro-isis-base-in-marawi
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