Storie del popolo Saharawi in una tazza di tè

Storie del popolo Saharawi in una tazza di tè

Saharawi 1
Saharawi 2

Introduzione: Com’è nato questo progetto?

Per il concorso “RACCONTAMI I SAHARAWI – un popolo che resiste” indetto dal Circolo PD Pratello di Bologna (https://raccontamisaharawi.wordpress.com/il-concorso/) abbiamo deciso di raccontare queste storie sul popolo Saharawi.
A Barcellona abbiamo conosciuto Mari Pau, che insieme alla sua famiglia è parte dell’associazione Vacances en Pau di Mallorca che organizza scambi per bambini e ragazzi Saharawi. Ci ha raccontato le storie dei suoi fratelli Saharawi: Mahana e Fatimetu e alcuni aneddoti curiosi del loro primo incontro.Ci ha inoltre messo in contatto con Fatimetu; grazie alle sue parole abbiamo potuto viaggiare all’interno del campo rifugiati di Smara e conoscere come vivono i giovani Saharawi, le loro ambizioni e le loro preoccupazioni. Da questi incontri sono nati tre racconti.

Questi tre racconti partono da storie private ma vogliono essere l’occasione per informare sulla condizione del popolo Saharawi. Un popolo che vive in esilio forzato dal proprio territorio, occupato dal Marocco, da più di trent’anni e che lotta per l’indipendenza e per far sì che la loro condizione non sia dimenticata.

1- “Amaro come la vita”
Storia di Mahana, del mare e dei mostri di metallo

Quando Mahana arrivò a Mallorca per trascorrere il periodo estivo aveva otto anni, l’età minima richiesta per partecipare al progetto di scambio dell’associazione Vacances en Pau. Era partito lasciando la sua famiglia e i suoi otto fratelli alla temperatura torrida di 50 gradi del deserto algerino, dove si trovano i campi di rifugiati che ospitano la maggior parte della popolazione Saharawi.Era la prima volta che lasciava il campo di Smara, era spaesato e non parlava. L’impatto col nuovo ambiente fu sicuramente forte: passare in poche ore da una distesa di sabbia, rocce e tende a un’isola circondata da acqua turchese e ricoperta da una vegetazione rigogliosa non doveva averlo lasciato indifferente.Per distrarlo io e la mia famiglia decidemmo di portarlo in spiaggia, “a chi non piace il mare?” pensammo, il mare che, come diceva Verga “è di tutti quelli che lo sanno ascoltare”, quel mare che accoglie e unisce.Decidemmo di andare a cala Egos, dove il verde della natura si fonde con le tantissime sfumature di azzurro del mare. Quando Mahana vide per la prima volta il mare i suoi occhi si illuminarono, e, all’improvviso, ci fece un sorriso enorme. Sembrava come se avesse ritrovato un vincolo ancestrale; il campo rifugiati dove è nato dista più di 3000 km dal mare ma il suo Paese d’origine, il Sahara occidentale, ha una estesa zona costiera che si affaccia sull’oceano Atlantico. Una costa dove le dune decorate di palme si tuffano nel mare ricco di pesci, facendo della pesca una delle risorse economiche del Paese.

Saharawi 3

Questa preziosa risorsa adesso è sfruttata dal Marocco che, appoggiato dall’Unione Europea e in particolare dalla Francia, firma accordi commerciali milionari senza tenere conto della volontà della popolazione Saharawi che, invece, ancora detiene, secondo il diritto internazionale, il diritto di decidere dei suoi territori.
Il Sahara Occidentale, infatti, è una zona ricca di risorse naturali e materie prime, è un deserto dove si può vivere, non inospitale come quello algerino dove vive relegata la maggior parte dei Saharawi.

Arrivato a casa, dopo una divertente e intensa giornata al mare, Mahana venne attirato da un’altra novità: i rubinetti. Dalla prima volta in cui venne a conoscenza di questi “mostri di metallo” che sputano acqua senza fine, Mahana poteva passare ore a guardare l’acqua scorrere. Apriva il rubinetto e restava imbambolato, come se stesse assistendo a un eccezionale spettacolo della natura.
In realtà non c’è da stupirsi di fronte a questa reazione. Nei campi rifugiati, infatti, non c’è acqua corrente; in alcuni campi ci sono dei pozzi ma nel campo di Smara da cui proviene Mahana, come in quello di Ausèrd, l’acqua viene trasportata con camion-cisterna. Ogni famiglia ha diritto a una quota d’acqua in base al numero di componenti. Nemmeno i servizi igienici sono dotati di acqua corrente. In molti casi, infatti, sono costituiti da un semplice buco nella sabbia.

L’incontro con Mahana ci ha fatto capire ancora di più quanto sia dura l’esistenza dei Saharawi, costretti a vivere da più di trent’anni in condizioni di precarietà e assoluta povertà, anche per colpa del disinteresse dei Paesi occidentali che appoggiano il Marocco per perseguire i loro interessi economici. La pesca e i giacimenti di fosfato sembrano, infatti, contare più dei diritti umani e del destino di un’intera popolazione. Una popolazione che vive da quasi quarant’anni in esilio forzato in campi profughi temporanei, senza poter esprimere la propria volontà e senza poter tornare nelle proprie terre.
Nonostante i giorni felici passati a Mallorca, Mahana capì che stare lontano dalla sua famiglia non faceva per lui, e decise di non partecipare più agli scambi estivi per studenti.
Adesso che è adulto vive ancora a Smara, dove si occupa della sua famiglia e si impegna per far cambiare le cose e migliorare la situazione del suo popolo. Magari un giorno potrà tornare a nuotare… nel suo mare.

Dopo Mahana, abbiamo avuto il piacere di far entrare nelle nostre vite Fatimetu, la sua sorella minore.

2- Dolce come l’amore
Storia di Fatimetu e l’amore per il suo Paese. Ma quale Paese?

La prima volta che ho incontrato Fatimetu aveva otto anni, era una bambina vivace e curiosa.
Quando si presentò disse in uno spagnolo elementare ma sicuro “Soy Fatimetu, tengo ocho años y soy Saharaui.” (“Sono Fatimetu, ho otto anni e sono Saharawi”). Lo disse con tutto l’orgoglio del mondo, eccezionale per una bambina della sua età. Mi ricorderò sempre di quando sull’autobus incontravamo persone che parlavano arabo marocchino e lei, con un misto di tristezza e rabbia, mi diceva “sono Marocchini, loro ci hanno invaso, per colpa loro non posso vivere nel mio Paese.”
Quando le chiedevo informazioni sul suo Paese, i suoi occhi si riempivano d’amore e lo descriveva come un deserto pieno di oasi e con un mare spettacolare, pieno di pesci e onde in cui tuffarsi. Un Paese pieno di colori, dove le donne indossano i preziosi “al-malhfa” lunghi abiti dalle mille sfumature e gli uomini i “darrâa”, tuniche comunemente di colore azzurro. Un Paese che ha l’odore del tè e dell’hennè. Un Paese ricco di tradizioni ma dove si può comprare anche la Coca cola.

Fatimetu, però, non è mai stata nel Paese che descrive, non ha mai messo piede nella sua patria: il Sahara Occidentale.
Fatimetu è nata nel campo profughi di Smara, uno dei cinque campi profughi (detti wilaya) che prendono nome da cinque province del Sahara Occidentale, attualmente occupate dal Marocco: Djala, Aussert, Smara, El Aaiun, Bojador; nomi che rievocano un senso di appartenenza e di patria.
Tutti i campi si trovano nel deserto algerino, l’hamada. Si tratta di una zona inospitale, soffocante d’estate e molto fredda d’inverno tanto che una delle maledizioni più temute dalle genti del deserto recita: “Che Dio ti mandi nella hamada!”.

Saharawi 4

Il campo profughi di Smara è una distesa di tende e case di sabbia, con una scuola e un ospedale. Le botteghe sono pochissime e vendono articoli, giochi, vestiti provenienti in gran parte dall’Occidente.

La capitale amministrativa del RASD (Repubblica Democratica Araba dei Saharawi) è Rabouni. Tutti gli adulti che vivono nei campi hanno l’obbligo di prendere parte a uno dei cinque comitati: salute, educazione, giustizia, artigianato e approvvigionamento alimentare. L’organizzazione dei comitati è responsabilità delle donne, dato che gli uomini sono obbligatoriamente arruolati nell’esercito.
Il cibo e i vestiti sono forniti in gran parte dalle varie ONG; ogni famiglia ha diritto a una razione mensile di alimenti che è composta da pane e olio, lenticchie, fagioli, pasta, cous cous, tè e latte per non venire meno alle tradizioni. Ultimamente, per supplire alla scarsità di cibo fornita dalle ONG, sono nati dei mercati dove la gente vende i prodotti degli orti che si stanno diffondendo sempre più in diversi campi profughi.

Tutte le famiglie sono uguali, povere uguali; fino a una trentina di anni fa nel campo non circolava denaro. Come dice Fatimetu, però, essere nati in un campo di rifugiati è in parte una fortuna; perché grazie a questa condizione sin da piccoli imparano a dare valore alle cose importanti e non a quelle materiali.

La popolazione si dedica alla pastorizia e per questo, mentre si percorrono le polverose strade di sabbia del campo, è facile imbattersi in capre, pecore e dromedari.
Le giornate nell’accampamento di Smara scorrono monotone, rallegrate solo dal rito del tè, una tradizione importante per i Saharawi, occasione di incontro e simbolo di accoglienza. Questo rito richiede tempo, oltre che la bravura di chi lo prepara; secondo la tradizione il tè va, infatti, bevuto tre volte: la prima volta amaro come la vita, la seconda dolce come l’amore, la terza soave come la morte.

La condizione dei vari campi si sta, comunque, evolvendo pian piano; iniziano a comparire i primi pannelli solari e le prime televisioni, spesso donazioni di famiglie occidentali.
I Saharawi, però non vogliono mettere le radici in un territorio che non è il loro; le loro menti e i loro cuori sono sempre rivolti al Paese che sono stati costretti a lasciare, il Sahara occidentale.

Il Paese che Fatimetu mi ha sempre descritto e che ha nel cuore è un Paese che conosce dai racconti dei suoi nonni e dei suoi genitori, è un Paese che studia a scuola e che si immagina attraverso le favole popolari.
È un Paese che si trova in questa tragica condizione a causa di conquiste e invasioni e che continua a trovarsi in questa assurda condizione per giochi politici ed interessi economici che vedono protagonisti il Marocco ma anche le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Francia e la Spagna.

Saharawi 5

Fatimetu, adesso, ha 19 anni e vive tra Palma de Mallorca, dove è arrivata grazie al programma di studi Escola en Pau, e il campo di rifugiati di Smara, dove si trova ancora la sua famiglia.

Da lei, ho imparato che si può provare amore e orgoglio per il proprio Paese anche se non ci si è mai stati, che gli Stati perseguono interessi economici anche quando sono insensati e che nel mezzo del deserto vendono la Coca cola.

3- Soave come la morte
Giocarsi la vita per la vita

Se chiedi a un Saharawi: “hai paura della morte?”, molto probabilmente ti risponderà “è meglio morire in guerra cercando di riconquistare il proprio Paese e renderlo libero e indipendente per i tuoi figli piuttosto che morire lentamente ogni giorno aspettando un referendum che non ci sarà mai.”
Nei primi anni ’90 i Saharawi avevano la speranza di poter votare al referendum, che avrebbe sancito il permesso di tornare alla loro terra di origine, il Sahara Occidentale. Poi però sono passati dieci, venti, trent’anni e ormai nessuno crede più alla possibilità del referendum.
Quando pensano ai loro vicini marocchini viene loro in mente un muro, un muro immaginario, quello in cui si imbatte ogni giorno la popolazione Saharawi, la cui volontà di far sentire la propria voce viene ignorata costantemente dal Marocco, incaricato di organizzare il referendum. Tuttavia esiste anche un muro vero, un muro lungo più di 2700 metri costruito dall’esercito marocchino, il “muro della vergogna” che separa la zona controllata dal Marocco da quella controllata dal Fronte Polisario.

Saharawi 6

Un muro circondato da mine antiuomo che, nel silenzio e nella dimenticanza internazionale, è causa di tantissime vittime ogni anno.
Come Ahmed pastore di capre che ha perso una gamba per seguire il suo gregge che si era avvicinato a una zona minata, o Mohammed di 6 anni, che ha scambiato la mina per un giocattolo e ha perso la vita.

I giovani Saharawi, però, non sono più disposti ad accettare questa condizione. I giovani, nati nei campi di rifugiati, come Mahana o Fatimetu, sono istruiti, intraprendenti, hanno conosciuto cosa vuol dire vivere in un Paese “normale” e sono consapevoli dell’ingiustizia subita. Non hanno più voglia di aspettare il referendum, di continuare a vivere senza un futuro, di avere come unico obiettivo quello di vivere e lavorare all’estero per mantenere le loro famiglie che vivono nei campi rifugiati.

Per questo sono sempre di più i giovani disposti a ricorrere alle armi e ad entrare in guerra contro il Marocco, venendo meno al cessate il fuoco in atto dal 1991.
La decisione di entrare in guerra non è certamente presa a cuor leggero, ma la nuova generazione vuole cambiare la situazione a qualsiasi costo. Ragazzi e ragazze si stanno già organizzando con armamenti, per essere preparati in caso decidano di attaccare.
Certo è difficile immaginare ragazzi come Mahana e Fatimetu ricorrere alle armi e entrare in guerra con il Marocco rischiando la vita, ma la disperazione può portare a decisioni esasperate.
Al fianco di queste posizioni più estreme convivono tantissimi altri giovani che, invece, sostengono una resistenza pacifica. Moltissimi ragazzi, ad esempio, hanno puntato sulla formazione; sono andati a studiare all’università in Algeria o in un Paese europeo con l’idea che i loro studi potranno essere utili per l’organizzazione e la gestione del Sahara Occidentale, quando sarà raggiunta l’indipendenza.
Molti vogliono combattere non con le armi ma con la cultura e l’educazione, per far conoscere la causa della popolazione Saharawi a più persone possibili, per non restare soli a lottare per l’indipendenza.

Conclusioni: Chi sono i Saharawi?

Alla fine di queste storie ci si chiede: “Chi sono quindi i Saharawi?”, una popolazione la cui storia è spesso e da molti ignorata.

 Saharawi 7

I Saharawi sono Fatimetu, orgogliosa del suo Paese e del suo popolo, Mahana, che sogna una vita migliore per la sua famiglia nel Sahara Occidentale e tutti i giovani pronti a lottare per tornare nella loro patria, anche ricorrendo alla guerra come soluzione estrema.
Sono un popolo che conosce l’amarezza della vita, l’amore per la patria, che non vuole continuare a morire lentamente e che, nonostante non abbia nulla, ti ospiterà sempre offrendoti una tazza di tè, anzi tre.

Featured Image Source: Wikimedia

Guardar