AEC, Asean

Il ruolo economico e politico dell’Asean nel 2016

-Jan Trevisan-

Il 2015 ha offerto all’ASEAN numerose occasioni per rafforzare le proprie ambizioni e imporsi come un attore di importanza primaria nel panorama politico asiatico. Il dinamismo economico dell’area ha certamente contribuito a legittimare tali pretese: l’ASEAN è oggi un enorme e sempre più integrato mercato,[1] caratterizzato da un prodotto interno lordo combinato di 2,4 trilioni di dollari e da una crescita prevista del 6% annuo, che secondo le statistiche potrebbe portarla ad affermarsi come il terzo attore economico a livello mondiale. Dal punto di vista politico, invece, l’ASEAN ha dichiarato il raggiungimento di numerosi obiettivi pianificati per il quinquennio 2009-2015, come l’implementazione di piani di sviluppo regionali e l’avvio di varie iniziative congiunte per la promozione della sicurezza, della stabilità e di una maggiore integrazione politica.

I recenti successi raggiunti dall’ASEAN in campo economico e politico sono stati riconosciuti formalmente dall’avvio di nuove attività che dovrebbero contribuire alla costruzione di una ASEAN Community integrata e prospera, come progettato già a metà degli anni ‘90.[2]  Questo articolo si pone l’obiettivo di analizzare lo scenario corrente e le prospettive dell’ASEAN, sia sul piano politico che sul piano economico, mettendo in risalto l’importanza dell’attività dell’Associazione come attore internazionale, senza tuttavia trascurare le problematiche che deve risolvere per poter raggiungere i propri ambiziosi obiettivi.

 ASEAN Economic Community e il ruolo economico dell’ASEAN

Il 31 dicembre 2015 è stata istituita formalmente l’ASEAN Economic Community (AEC), un framework politico e normativo che pone le basi per la creazione di un mercato unico nella regione. L’AEC, formalizzata per la prima volta nel 1992 e inizialmente prevista per il 2020,[3] è stata descritta come una pietra miliare nel processo di integrazione regionale nell’Asia del Sud-Est, sia per la sua importanza  economica che per la capacità di promuovere di una maggiore integrazione politica.[4]

L’AEC non è da considerarsi un punto di arrivo, quanto un punto di partenza per una più stretta cooperazione futura. I suoi obiettivi e le sue aree d’azione sono raggruppate in quattro “pilastri”, ovvero l’istituzione di un mercato unico e di una base di produzione uniforme, l’aumento della competitività, uno sviluppo economico equo e una maggiore integrazione nell’economia globale. In termini concreti, l’istituzione dell’AEC marca l’avvio dell’ultima fase del processo di eliminazione delle tariffe agli scambi, già peraltro virtualmente azzerate,[5] e il completamento del processo di uniformazione della normativa commerciale. Più che la creazione di un nuovo strumento, l’avvio dell’AEC rappresenta pertanto la formalizzazione del panorama risultante dagli accordi già esistenti in ambito economico e commerciale: tramite l’implementazione di un sistema di monitoraggio del raggiungimento degli obiettivi conosciuto come AEC Scorecard, il segretariato ASEAN dimostra come il sistema di accordi già in vigore renda possibile il raggiungimento al 92.4% degli obiettivi nel primo pilastro, al 90.5% degli obiettivi nel secondo e al 100% per il terzo ed il quarto.

Nonostante le dichiarazioni e gli ambiziosi progetti futuri, la reale importanza economica dell’AEC è attualmente messa in difficoltà dall’esistenza di profondi squilibri economici nella regione. Infatti, a dispetto della forte crescita, le iniziative comuni non sono riuscite a colmare la differenza in termini di sviluppo e capacità economica tra i membri originari dell’ASEAN, ovvero Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Tailandia, ben sviluppate ed integrate nel mercato mondiale, e tra i suoi membri più recenti e meno economicamente avanzati, ovvero Cambogia, Laos, Myanmar e Vietnam.[6] Il fattore principale dietro a questo divario è l’assenza di un’infrastruttura di base adeguata, composta da  collegamenti stradali, ferrovie e infrastrutture energetiche, fondamentali per lo sviluppo di value chains a livello regionale che possano stimolare il rafforzamento dell’integrazione anche in termini produttivi.

Negli anni passati sono stati avviati vari processi atti a modernizzare le infrastrutture nella regione. Il progetto finora più rilevante è la creazione da parte dell’ASEAN e dell’Asian Development Bank dell’ASEAN Infrastructure Fund, che dal 2011 finanzia ogni anno progetti infrastrutturali per un valore di circa 300 milioni di dollari. Seppur rilevanti, questi investimenti non sono stati finora sufficienti a generare iniziative che possano colmare il development divide tra i Paesi della regione.

In aggiunta, non bisogna pensare che i diversi livelli di sviluppo abbiano sull’ASEAN solamente ricadute di tipo economico. Sono evidenti le divisioni tra i Paesi membri anche sul piano politico e sul livello di integrazione regionale: infatti, mentre i più sviluppati guidano l’agenda, le politiche e gli accordi internazionali dell’ASEAN, gli altri mantengono un ruolo marginale nei negoziati politici. Le differenze in termini di livelli di sviluppo dei Paesi membri possono quindi tradursi in situazioni di criticità, che possono essere dannose per l’integrazione regionale.

 Gli accordi internazionali e il ruolo politico dell’ASEAN

Dal punto di vista politico appare evidente che l’ASEAN si sia oggi affermata come l’attore principale nell’ambito del regionalismo sud-est asiatico. Il suo primato politico non ha subito erosioni né dagli spostamenti del potere in Asia, né dalla nascita di nuove piattaforme di organizzazione e di dialogo politico a livello regionale, come la Shanghai Cooperation Organisation o la South Asian Association for Regional Cooperation.[7]

Tuttavia, è sorprendente notare la mancanza in Asia di un framework intergovernativo comparabile con le altre organizzazioni a livello regionale, non solamente come l’UE, ma anche come l’Unione Africana o l’organizzazione degli Stati Americani. Questa situazione politico-istituzionale deriva dal processo storico del regionalismo asiatico, motivato più da interessi condivisi che da un progetto identitario comune. In aggiunta, ancora oggi i Paesi dell’Asia del Sud-Est identificano nella mancanza di vincoli stringenti un metodo per garantire la propria autonomia in occasione dello spostamento dei centri di potere nella regione, in contrasto alla preponderanza degli Stati Uniti d’America e alla crescita della Cina o dell’India. Appare quindi naturale che negli accordi internazionali i Paesi ASEAN vogliano mantenere un margine di manovra il più ampio possibile, sia tra di loro che rispetto all’Associazione stessa.[8] L’atteggiamento proprio dei paesi ASEAN nei confronti dei vincoli internazionali viene comunemente descritto come ASEAN way, espressione che identifica un processo basato sulla consultazione e sul consenso piuttosto che su vincoli ed obblighi stringenti.

Ciò nonostante, vista la crescente importanza dell’ASEAN sul piano politico regionale e i progetti di una più stretta integrazione, la preponderanza dell’ASEAN way fa sorgere legittimi dubbi sulla sua compatibilità con una struttura intergovernativa governata dalla legge. Infatti, nonostante l’ASEAN abbia firmato più di 175 documenti tra accordi interazionali, memorandum d’intesa, dichiarazioni e piani d’azione, una buona parte degli accordi non è legalmente vincolante, particolarmente in campi differenti da quello della cooperazione economica.[9] In aggiunta, ASEAN way  riflette la tradizionale mancanza di volontà dei paesi asiatici di delegare la sovranità alle organizzazioni internazionali. E’ per questo infatti che gli organismi regionali che si sono venuti a creare in Asia sono stati per decenni estremamente limitati nelle proprie azioni: basti pensare che il documento fondatore dell’ASEAN, la Dichiarazione di Bangkok, oltre a descrivere qualche obiettivo comune ha solamente definito un incontro annuale dei Ministri degli Esteri dei Paesi che ne presero parte. In aggiunta, i Paesi asiatici sono tutt’oggi meno propensi a vincolarsi in accordi internazionali stringenti, oppure ad a delegare il potere decisionale a terze parti: un studio empirico[10] ha dimostrato come i paesi asiatici[11] presentino statisticamente il più basso tasso di accettazione della giurisdizione obbligatoria della Corte Internazionale di Giustizia (solo il 10% dei Paesi asiatici la accettano, contro il 40% dei Paesi africani o il 70% di quelli dell’Europa occidentale) o della Corte Criminale Internazionale (30%, contro valori superiori alla media dell’80% degli altri Paesi del mondo); inoltre, è meno frequente anche la firma di documenti come la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (per entrambe, solo il 60% dei Paesi asiatici ne è parte, mentre i Paesi africani ne sono membri in media al 90%) o perfino l’accesso all’Organizzazione Mondiale del Commercio (il 65% dei Paesi asiatici ne è parte, contro il 75% dei Paesi dell’Europa orientale o dell’Africa).

La firma nel 2007 dell’ASEAN Charter, che ha dato una personalità giuridica all’Associazione, e l’implementazione di avanzati meccanismi di monitoraggio a livello regionale hanno dimostrato la volontà degli Stati membri di impegnarsi maggiormente negli accordi[12] in vista dei benefici comuni che possono apportare, principalmente in campo economico, al quale si riferisce l’82% degli accordi esterni totali dell’ASEAN. Tuttavia, è sorprendente notare come il Segretariato dell’associazione sia sistematicamente poco coinvolto nel processo di negoziazione degli accordi internazionali, che rimane completamente appannaggio dei governi degli Stati membri: fino ad oggi, l’ASEAN in quanto tale ha sottoscritto solamente un accordo internazionale, per giunta di importanza marginale.[13] Questo fattore mette alla luce un altro limite dell’ASEAN, ovvero la mancanza di incisività del proprio Segretariato, al quale sono assegnati compiti logistici e non di indirizzo politico. Le cause di questa situazione sono da ricercarsi ancora una volta nella resistenza degli Stati membri a cedere parte della propria sovranità, tradotto in una oggettiva mancanza di risorse allocate per lo sviluppo di istituzioni comuni.

Negli ultimi anni si è venuta affermando nella conclusione di accordi internazionali la formulazione “collectively ASEAN”, tramite la quale i Paesi membri sottoscrivono gli accordi internazionali esprimendo la loro aspirazione alla centralità dell’Associazione sul piano regionale. Questa formulazione permette agli Stati membri di pilotare la politica dell’ASEAN garantendole al tempo stesso un notevole margine di libertà. Seppure simbolicamente importante, il successo di questa formulazione dimostra l’esistenza nelle relazioni internazionali di due ASEAN distinte: da un lato l’organizzazione internazionale, con una propria personalità legale, strutture ed obiettivi; dall’altro, l’insieme dei paesi membri, ognuno con i propri interessi individuali.

 Il summit di Sunnylands, l’equilibrio regionale e le implicazioni per l’ASEAN

Il ruolo dell’ASEAN come attore politico è stato particolarmente evidente nel corso del summit tra gli USA ed i Capi di Stato dell’ASEAN tenutosi il 15 e 16 febbraio 2016 a Sunnylands, in California. Seppur incontri regolari tra le due parti siano stati condotti regolarmente, l’incontro è stato per la prima volta voluto ed organizzato dagli USA, verosimilmente come uno degli ultimi atti della strategia pivot to Asia dell’amministrazione Obama.

Il summit ha offerto all’ASEAN la prima vera occasione per dimostrare la consistenza dell’US-ASEAN Strategic Partnership,  un accordo di partenariato che prevede la cooperazione in molteplici settori a partire dal mondo del business, dell’energia e della policy. Per l’ASEAN, la partnership con un attore internazionale di rilevanza come gli Stati Uniti rappresenta l’occasione per affermarsi nuovamente come un attore importante, che ha la capacità reale di giocare un ruolo di rilievo nelle sfide internazionali legate per esempio al clima, al terrorismo ed alla tratta di esseri umani. La formalizzazione del partenariato con gli USA non può quindi che rappresentare per l’ASEAN un successo diplomatico, per lo meno in quanto rappresenta l’ennesima riaffermazione del suo ruolo dominante nel regionalismo sud-est asiatico.

Ciò nonostante, l’avvicinamento agli USA è anche un riflesso della necessità dell’ASEAN di bilanciare la presenza cinese in Asia.[14] I rapporti tra la Cina e l’ASEAN sono infatti fortemente legati ai cambiamenti oggi in corso: in seguito al raggiungimento di un accordo di libero scambio tra le due parti, entrato in vigore nel 2010, è in fase di negoziato il Regional Comprehensive Economic Partnership, un accordo di libero scambio di più ampia scala, che coinvolge non solo ASEAN e Cina ma anche Australia, Nuova Zelanda, India, Corea e Giappone. In aggiunta, il 16 gennaio 2016 è stata avviata la Asian Investment Infrastructure Bank, un’istituzione finanziaria internazionale voluta dalla Cina per la promozione di progetti di sviluppo nell’area dell’Asia-Pacifico.

Infine, il dialogo con gli Stati Uniti è una necessità dell’ASEAN in vista della futura entrata in vigore del Trans-Pacific Partnership (TPP), un accordo commerciale fortemente voluto dagli USA e firmato il 4 febbraio 2016 tra 12 partner nella regione dell’Asia-Pacifico, tra i quali si nota l’assenza della Cina e l’incusione di quattro membri dell’ASEAN: Brunei, Malesia, Singapore e Vietnam. Oltre a misure volte a promuovere gli scambi commerciali e lo sviluppo economico, l’accordo prevede azioni congiunte nell’ambito della regolamentazione delle questioni ambientali, dei diritti dei lavoratori e della competizione. L’entrata in vigore del TTP si prospetta per l’ASEAN da un lato come un occasione di grande crescita economica per i quattro Paesi che ne sono parti, in particolare modo per il Vietnam, considerato il vero beneficiario dell’accordo[15] in forza dell’ottenimento dell’accesso privilegiato a lucrativi mercati esteri e della sua capacità di attirare investimenti stranieri; dall’altro lato, il TTP può alimentare ulteriormente il divario tra i Paesi ASEAN che ne sono parte e quelli che invece non lo sono, rendendo meno conveniente per i primi commerciare con i secondi.[16]

I Paesi ASEAN che non sono parte del TPP hanno dimostrato differenti atteggiamenti riguardo l’accordo. L’Indonesia ha inizialmente preso la decisione di tenersi fuori dai negoziati per mantenere alto il livello di protezione del proprio mercato, ma le proiezioni economiche favorevoli dell’accordo hanno spinto il goveno di Jakarta verso l’avvio del processo di revisione dei propri regolamenti interni per adeguarsi ai requisiti dell’accordo e poter formalmente accedervi. Nelle Filippine l’accesso all’accordo non è possibile senza una modifica alla Costituzione, che limita gli investimenti stranieri in certi settori. La forte opposizione interna ha reso impossibile l’avvio dei negoziati; tuttavia, recentemente il governo di Manila ha espresso l’intenzione a diventarne parte, sia per non perderne i benefici economici derivanti, sia per rinforzare il canale di dialogo politico con gli USA in vista di una più stretta collaborazione nell’ambito dello sviluppo sostenibile. La Tailandia, invitata a diventare parte del TTP fin dai suoi primi negoziati, inizialmente non ha preso una chiara posizione a causa dei disordini politici interni, ma ha dichiarato successivamente la volontà di sottoscrivere l’accordo. Il Laos e la Cambogia, due economie in grande crescita, non sono stati invitati ad accedere al TPP in quanto non membri dell’APEC, ma non hanno escluso di diventarne parte in futuro. Considerata tuttavia la loro situazione normativa ed economica, appare difficile che entrambe possano accedervi nel corto e nel medio periodo senza considerevoli riforme interne. Non ha preso invece una posizione chiara nei confronti del TPP il Myanmar, il paese più povero dell’ASEAN.

Dal punto di vista politico, l’accesso parziale dei paesi ASEAN al TTP rappresenta una contravvenzione della scelta dell’ASEAN di impegnarsi unitariamente in accordi commerciali che portino benefici a tutti i membri. Un più stretto dialogo con gli USA e con gli altri partner commerciali internazionali, in primis con la Cina e con l’UE, è necessario a livello ASEAN per riuscire a colmare il divario, facendo in modo che i vari accordi economici possano portare a benefici congiunti.

In  questo panorama, l’ASEAN deve cercare raggiungere un equilibrio tra le varie relazioni che le permetta di capitalizzare sui benefici risultanti, in modo da garantire uno sviluppo uniforme  per tutti i propri membri. Infatti, come dimostrato precedentemente, differenti livelli di sviluppo si traducono per i Paesi ASEAN in differenti livelli di coinvolgimento nei negoziati economico-commerciali: nel caso del TPP, solamente quattro paesi sono infatti parte dell’accordo (Brunei, Malesia, Singapore e Vietnam), due sono interessati ad accedervi (Filippine e Tailandia), mentre tre ne sono esclusi in quanto non membri dell’APEC (Cambogia, Laos e Myanmar). Tali discrepanze possono portare ad una ripartizione non equa dei benefici: uno scenario che l’ASEAN deve assolutamente evitare, se vuole raggiungere gli obbiettivi di maggiore integrazione previsti per il futuro.

Sul piano politico il summit ASEAN-USA ha inoltre fornito nuovamente una dimostrazione dell’ASEAN way nella risposta alle dispute territoriali nel Mar Cinese Orientale. L’atteggiamento di compromesso è stato in questo caso strumentale al mantenimento dell’equilibro tra gli interessi individuali dei Paesi membri e l’unicità dell’Associazione. Infatti, alcuni Stati membri, come Malesia, Filippine, Brunei e Vietnam, presentano rivendicazioni non uniformi o addirittura contrastanti, mentre altri, come il Laos, non hanno interessi territoriali di nessun tipo. Vista la diversità di vedute tra le parti, è molto difficile aspettarsi che il blocco ASEAN raggiunga una posizione comune. Al contrario, la più efficace forma di generazione del consenso e della coesione regionale si attua nell’aderenza ai principi fondamentali condivisi da tutte le parti, che formano la base della coesione del gruppo e promuovono una struttura normativa interna più forte. E’ proprio ciò che è successo in questo caso: al posto di una dichiarazione diretta sulla questione, le parti hanno dato un ampio spazio, nel joint statement dell’incontro,[17] all’importanza del principio del mantenimento congiunto della sicurezza marittima, della cooperazione per il mantenimento della pace e del rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, in particolare modo dei principi della libertà di navigazione, della non-militarizzazione e nell’utilizzo del mare nel rispetto delle regole comuni. Anche se non esplicita, appare chiara in questa dichiarazione la denuncia delle recenti attività cinesi nel Mar Cinese Orientale, in particolare l’attività edilizia nelle isole Spratley, che include una notevole espansione delle isole e delle strutture esistenti, e l’installazione recente di batterie di missili terra-aria nell’arcipelago Paracel, entrambe viste come un atto intimidatorio del governo di Pechino per rafforzare il controllo esclusivo sull’intera area marittima. L’ASEAN non ha quindi altro modo di fronteggiare le azioni cinesi nel Mar Cinese orientale se non tramite questa strategia diplomatica, che risulta particolarmente rafforzata dal supporto attivo degli USA: infatti, questa strategia permette al governo di Washington di dimostrare allo stesso tempo la propria forza militare e l’aderenza al diritto internazionale, nello specifico al principio della libertà di navigazione, tramite il passaggio pacifico delle navi da guerra della propria marina militare nelle aree contese.

L’evoluzione futura dell’ASEAN

Il recente summit tra i Capi di Stato dei Paesi membri dell’ASEAN e degli Stati Uniti d’America ha messo in luce le caratteristiche e le problematiche principali dell’ASEAN, che nel 2015 ha avuto l’occasione di ribadire la propria importanza come un attore politico ed economico di primaria importanza tramite l’avvio negli ultimi mesi di numerose attività, come l’ASEAN Economic Community, la partnership US-ASEAN o l’Asian Investment Infrastructure Bank. Queste novità hanno posto le basi per la cooperazione regionale nel prossimo decennio, che secondo la “visione” espressa nel documento AEC Blueprint 2025, firmato a novembre 2015, vedrà la creazione di una vera e propria “Comunità ASEAN” nel 2025.[18]

Nonostante la sua indubbia rilevanza, l’ASEAN presenta talune criticità. Per esempio, nonostante il lancio della AEC, esistono ancora delle consistenti differenze in termini di sviluppo economico che dividono i membri dell’Associazione e che si traducono anche in differenti livelli di coinvolgimento nella definizione delle politiche a livello regionale. Inoltre, in molte delle proprie scelte politiche l’ASEAN è ancora fortemente legata alla ricerca del consenso, oltre a dimostrare costantemente una certa avversione a cedere la propria sovranità nazionale e a sottoporsi ad obblighi vincolanti.

L’ASEAN di inizio 2016 non ha la pretesa di essere considerata come un punto di arrivo, quanto piuttosto un organismo in continua evoluzione, guidato da ambiziosi obiettivi e costretto ad adattarsi ai mutamenti della realtà politica ed economica non solo del sud-est asiatico, ma del mondo intero. Il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine, che concorrono all’obiettivo finale del rafforzamento dell’integrazione regionale, dipenderà sia dalla volontà politica delle parti nei prossimi anni, sia dall’implementazione di misure nel medio periodo che dovrebbero risolvere le criticità che l’ASEAN si trova ora a fronteggiare.

[1] 24% degli scambi in beni dei paesi ASEAN è tra membri dell’associazione, mentre la percentuale per gli investimenti è del 18%. Fonte dei dati in questo paragrafo: A Blueprint for Growth ASEAN Economic Community 2015: Progress and Key Achievements, ASEAN Secretariat, novembre 2015.

[2] Dichiarazione ASEAN Vision 2020, 15 dicembre 1997.

[3] Il concetto di una “comunità economica” ASEAN fu espresso per la prima volta nel documento Framework Agreement on Enhancing ASEAN Economic Cooperation ed è stato ripreso nel documento ASEAN Vision 2020, che fissava propriamente al 2020 la data di lancio dell’ASEAN Economic Community. Tuttavia, nel 2007 i Paesi membri presero la decisione di anticipare il suo lancio alla fine del 2015, visto il forte grado di coesione economica raggiunto dai paesi membri.

[4] ASEAN Integration Report 2015, ASEAN Secretariat, novembre 2015.

[5]Nel gruppo conosciuto come ASEAN-6, del quale fanno parte i paesi della regione più economicamente avanzati (Indonesia, Malesia, Filippine, Brunei, Singapore e Tailandia), il 99.2% delle tariffe sono al 0%. Fonte: A Blueprint for Growth, ASEAN Economic Community 2015: Progress and Key Achievements, ASEAN Secretariat, Jakarta, November 2015.

[6] The ASEAN Economic Community: A Work in Progress, Asian Development Bank, 2013.

[7] Il primo gruppo è legato principalmente all’integrazione dell’Asia Orientale con gli stati dell’Asia Centrale e la Russia, mentre il secondo è legato al subcontinente indiano e all’Asia-Pacifico.

[8] I dati citati in questo paragrafo sono il risultato del progetto ASEAN Integration Through Law – The Role of Law and the Rule of Law in ASEAN Integration, sviluppato dalla National University of Singapore (Centre for Internastional Law) sotto la direzione del Prof. J.H.H. Weiler (EUI), Prof. Michael Ewing-Chow e Dr. Tan Hsien-Li (NUS).

[9] 82% degli accordi internazionali vincolanti sottoscritti dall’ASEAN riguardano questioni legate all’economia. Fonte: Cremona, Marise; Kleimann, David et al., ASEAN’s External Agreements: Law, Practice and the Quest for Collective Action, Cambridge University Press, 2015

[10] Chesterman, Simon, From Community to Compliance? The Evolution of Monitoring Obligations in ASEAN, Cambridge University Press, 2015.

[11] Il concetto di “Asia” utilizzato nello studio corrisponde ai gruppi regionali individuati in ambito ONU.

[12] L’ASEAN Charter ha dato un importante contributo all’attività internazionale dell’associazione: infatti, più dell’80% del totale degli accordi sottoscritti dall’ASEAN è stato raggiunto dopo il 2000.

[13] Si tratta dell’Implementation agreement for the ASEAN-German Regional Forest Programme (Phase II), sottoscritto nel 2005.

[14] Il bilanciamento delle relazioni non è solo un obiettivo asiatico: anche per gli USA il rafforzamento della relazione con l’ASEAN è utile ai fini del bilanciamento della relazione con la Cina.

[15] In aggiunta, il Vietnam ha recentemente concluso un accordo di libero scambio con l’UE; è anche grazie a questi accordi che gli analisti stimano un aumento della crescita del PIL vietnamita di oltre l’11%. Fonte: http://www.aseanbriefing.com/news/2015/10/16/aseans-winners-and-losers-under-tpp.html

[16] C. Inkyo, Negotiations for the Trans-Pacific Partnership Agreement: Evaluation and Implications for East Asian Regionalism, Asian Development Bank Institute Working Paper, luglio 2013.

[17] Testo completo: https://www.whitehouse.gov/the-press-office/2016/02/16/joint-statement-us-asean-special-leaders-summit-sunnylands-declaration. Le dichiarazioni a sostegno dei principi legati al mare occupano ben tre paragrafi sui 17 totali.

[18] Il documento prevede il raggiungimento nel 2025 di una vera e propria “comunità” attraveso la dfinizione di cinque punti di cooperazione: una ancora maggiore integrazione economica; la promozione dell’innovazione e della competitività; un rafforzamento della connettività; la promozione di servizi comuni; infine, il rafforzamento della posizione internazionale dell’associazione come blocco unitario.

Featured Image Source: BDG Vietnam