Made in Bangladesh

Made in Bangladesh

-Arianna Miorandi-

La grande fabbrica dell’industria tessile il Rana Plaza ha inghiottito oltre 1100 persone.  Nella periferia di Dacca, capitale del Banglasdesh, il Rana Plaza  rappresentava il simbolo della delocalizzazione a buon mercato;  al suo interno le aziende occidentali producevano magliette, camicie, vestiti di ogni genere. Abiti che in Europa e negli Stati Uniti si acquistano nei grandi magazzini e in molte catene di  famosi brand.

In questo esteso laboratorio tessile vi lavoravano oltre 3000 persone per uno stipendio inferiore a  30 euro al mese.

La mattina del 24 aprile, in pochi istanti,  otto piani del grande complesso si sono sgretolati e hanno sepolto centinaia di corpi. Sono morte in gran parte donne, giovani madri, ragazzine che cucivano dodici ore al giorno abiti esportati poi sul mercato occidentale.

Nove persone sono state arrestate per il crollo dell’edificio, tra loro il proprietario dello stabile e quelli di alcune imprese locali. L’accusa è di aver utilizzato materiale da costruzione scadente e di non aver avuto i permessi necessari per ampliare l’edificio. Sono accusati inoltre di aver costretto i dipendenti a continuare il lavoro nonostante le proteste per le numerose crepe negli edifici. Gli ispettori locali avevano fatto evacuare l’edificio il giorno precedente al crollo per il timore di un cedimento ma i lavoratori erano stati costretti a rientrarvi il giorno successivo.

L’industria tessile non si può fermare in Bangladesh. Il tessile è diventato un settore strategico per l’economia locale, rappresenta, infatti, circa l’80% delle esportazioni e il Paese è diventato il secondo più grande esportatore al mondo di abbigliamento, dopo la Cina. I bassi salari e l’abbondante e operosa manodopera hanno attirato, negli ultimi anni, numerose multinazionali occidentali, tra le quali figurano il gruppo spagnolo Indetex (proprietario dei marchi Zara, Mango…), il gruppo Benetton e l’americana Gap.

A quindici giorni di distanza dell’incidente al Rana Plaza, il Ceo di Benetton Biagio Chiarolanza ha ammesso, dopo le smentite iniziali, la presenza dell’azienda italiana all’interno dello stabilimento e in particolare il rapporto professionale con la compagnia New Wave Style.
In un’intervistata rilasciata all’edizione americana dell’Huffigton Post, Chiarolanza ha dichiarato «La New Wave, al momento del disastro, non era uno dei nostri grossisti, ma uno dei nostri fornitori in India le aveva subappaltato due ordini[1]».

Il crollo del Rana Plaza non è stato il primo incidente di questo tipo in Bangladesh. Nell’aprile del 2005, 73 lavoratori morirono nel crollo di una azienda a Savar; nel febbraio 2006 e nel giugno del 2010 altri due crolli, avvenuti all’interno di aziende tessili provocarono, la morte di 18 persone nel primo caso e di altre 25 nel secondo. L’incidente più recente si è verificato nel novembre del 2012 dove oltre 100 persone morirono per un incendio divampato in una fabbrica di Dacca.

Human Rights Watch ha accusato le aziende tessili che operano in Bangladesh di pagare gli stipendi più bassi al mondo e di non curarsi e non garantire le misure minime di sicurezza ai  lavoratori.

Il banchiere dei poveri Mohammed Yunus ha rivolto un appello alle industrie straniere e ai consumatori occidentali per favorire la riforma dell’industria tessile del suo Paese. In un editoriale al Guardinan, il fondatore della Grameen Bank e premio Nobel per la Pace, ha proposto di ”fissare un supplemento di 50 centesimi sul prezzo dei capi di abbigliamento made in Bangladesh da destinare ad un fondo per il welfare dei lavoratori e si è chiesto : «Un consumatore in un centro commerciale potrebbe sentirsi turbato se gli venisse chiesto di pagare un capo di abbigliamento 35,50 dollari invece di 35? La mia risposta è: no, non lo noteranno nemmeno.  Se riuscissimo a creare un welfare trust in Bangladesh, con un ulteriore  0,50 dollari, allora potremmo risolvere la maggior parte dei problemi che hanno di fronte i lavoratori quali sicurezza sul lavoro, le pensioni, l’assistenza sanitaria, l’alloggio e l’educazione dei loro figli…[2]”.

Dopo l’incidente al Rana Plaza, sedici aziende sono state chiuse  dal governo perché non rispettavano gli standard minimi di sicurezza e la produzione in altre duecento è stata temporaneamente sospesa per fermare l’ondata di manifestazioni e scioperi.

La protesta è cresciuta anche a livello internazionale. In pochi giorni, più di un milione di persone hanno firmato le petizioni che chiedono ai marchi che si riforniscono in Bangladesh di sottoscrivere il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement.  I coordinatori della Campagna Abili Puliti hanno affermato che: “In tutto il mondo l’opinione pubblica si è mobilitata per dire basta a questa orribile sequenza di incidenti e mandare un chiaro messaggio alle imprese che si riforniscono in Bangladesh, tra cui Mango, Primark, GAP, C&A, KIK, JC Penney,  Wal-Mart[3]“.

La mobilitazione internazionale ha, quindi,  spinto i grandi marchi occidentali  a firmare un accordo con i sindacati locali,  IndustriALL e UNI Global Union. Il protocollo, della durata di cinque anni, prevede investimenti nella sicurezza i cui costi saranno sostenuti dalle multinazionali, corsi per i lavoratori e l’istituzione della figura di un ispettore, indipendente tanto dalle aziende quanto dagli operai, incaricata di vigilare  sul rispetto delle regole, sulla sicurezza antincendio e degli edifici.

Fra i grandi gruppi che hanno accettato l’accordo,  figurano l’italiano Benetton, lo spagnolo Inditex (proprietario del marchio Zara), l’olandese C&A, l’americano PVH (che detiene marchi come Tommy Hilfiger e Calvin Klein), il tedesco Tchibo.sq, lo svedese Hennes&Mauritz (H&M), i supermercati britannici Tesco e Primark.

Non tutti hanno però accettato le nuove regole sulla sicurezza; alcuni brand statunitensi hanno rifiutato di sottoscrivere il protocollo riservandosi di approfondire l’argomento. Tra questi spicca il famoso marchio GAP.

Ora il timore per il Bangladesh è che gli oneri previsti dall’accordo spingano le multinazionali a lasciare il Paese e scegliere nuove frontiere della delocalizzazione a buon mercato,  come la Cambogia e l’Indonesia.

L’industria tessile di certo non si può fermare.

(Feature image: Flickr Rijans)


[1] Huffington Post, 9 maggio 2013, www.huffingtonpost.it

[2] The Guardian, 12 maggio 2013, www.guardian.co.uk