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Diversi volti dell’emigrazione giapponese

– Alice Greggio –

Il tema della migrazione, connesso alla continua decrescita della popolazione, è ciclicamente presente nei giornali e nei media nipponici. Infatti, anche se adombrati da questioni internazionali e nazionali che prendono più spazio di discussione, i problemi del progressivo invecchiamento della popolazione, del basso tasso di natalità e del costante deflusso di giapponesi all’estero sono difficilmente risolvibili nel breve termine e rischiano di mettere in seria difficoltà la stabilità economica del Paese e dei suoi sistemi previdenziali. Per capire però l’entità e l’efficacia degli interventi che vengono proposti, è interessante confrontarli con la storia delle politiche migratorie messe in atto nel corso dell’età contemporanea per far fronte a problemi di natura demografica ed economica.

Epoca Meiji e primo Novecento: incentivi all’emigrazione

Con l’inizio del Periodo Meiji nel 1868, uno dei più importanti cambiamenti attuati dal nuovo governo fu l’apertura delle frontiere e l’abolizione del divieto di migrazione dentro e fuori dal Paese, misura in vigore dal 1635 sia per i giapponesi sia per gli stranieri. Il primo Stato con cui il Giappone strinse accordi per la migrazione fu il Regno delle Hawai’i: nei primi anni fu lo stesso governo a firmare i contratti di lavoro per i futuri emigranti con i latifondisti delle piantagioni hawaiane, mentre a partire dal 1894 il controllo dell’emigrazione passò a compagnie private, poiché le istituzioni dovevano occuparsi della guerra sino-giapponese appena incominciata. La situazione non era particolarmente rosea per i lavoratori giapponesi, sfruttati da un lato dai latifondisti e dall’altro dalle compagnie per l’emigrazione, che secondo i rapporti «non si fermavano di fronte a nulla per incrementare il loro guadagno, guardando agli emigranti come macchine da profitto e non come esseri umani»[1]. L’emigrazione alle Hawai’i subì poi un forte cambiamento nel 1898, quando gli Stati Uniti occuparono il Regno facendolo diventare una colonia ed estendendo anche sui nuovi territori il loro divieto di impiego di immigrati a contratto.

Negli Stati Uniti la situazione migratoria era diversa perché, contrariamente all’arcipelago polinesiano, lì venivano accettati free emigrants, ovvero persone che non avessero già firmato alcun contratto di lavoro prima della partenza. Se da un lato però la popolazione statunitense era già propensa a sentimenti e retoriche antiimmigrati, dall’altro la politica “free emigrants” dava adito a questi discorsi poiché, a differenza dell’immigrazione a contratto, permetteva a chiunque di poter entrare nel Paese, anche a «elementi indesiderabili»[2]. Il risultato fu, quindi, la diffusione di un sentimento antigiapponese e di una campagna di protesta, che portò all’approvazione del “Gentlemen’s Agreements” nel 1907: con questo accordo il governo nipponico si impegnava a imporre restrizioni per limitare l’emigrazione verso gli Stati Uniti. Inoltre nel 1924 il “Federal Immigration Act” proibì l’immigrazione negli Stati Uniti a chiunque non potesse ottenere la cittadinanza, il che significava chiunque non fosse di razza bianca o di origine africana.

Il Giappone però doveva affrontare un’importante questione: la sovrappopolazione. Per dare un’idea più chiara del problema che si andava delineando con la velocissima industrializzazione del Paese e il conseguente aumento di popolazione, serve considerare che l’arcipelago ha una superficie di terraferma di 364 543 km2, di cui circa il 75% costituito da territorio montano, ovvero scarsamente abitabile; questo fa sì che la superficie adatta all’agricoltura e all’edificazione sia di circa 55 000 km2. Secondo le stime calcolate sui censimenti imperiali, nel 1907 la popolazione era di quasi 48 milioni di persone[3] e il tasso di fertilità era di 5,03 figli per donna[4], entrambi dati in costante crescita ogni anno. La sovrappopolazione era, quindi, un problema molto dibattuto e l’idea che si diffuse negli anni ’10 del Novecento, sia a livello istituzionale sia nell’opinione pubblica, era che la soluzione fosse l’emigrazione. Il governo si trovava da un lato le restrizioni imposte dal “Gentlemen’s Agreements” statunitense e dall’altro la necessità di favorire l’emigrazione giapponese. La risposta fu lo spostamento del flusso migratorio verso l’America del Sud e, in particolare, il Brasile. Innanzitutto venne adottata una nuova politica, che prevedeva tre azioni principali: fornire agli emigranti un capitale sufficiente per non rischiare di vivere nell’indigenza, facilitare l’assimilazione dei valori e della cultura giapponese nel Paese di arrivo e incoraggiare direttamente l’emigrazione con sussidi specifici. Un altro tassello che sospinse il governo a incentivare l’emigrazione con politiche dirette fu il Grande Terremoto del Kantō del 1923, che distrusse la capitale Tōkyō e buona parte delle prefetture vicine, anche a causa degli incendi e di un potente tifone che li alimentò per alcuni giorni. Seppure con stime imprecise, si calcola che gli sfollati furono intorno a 1,9 milioni di persone[5]. Una delle risposte politiche per cercare di arginare le conseguenze sociali ed economiche del terremoto fu proprio la promozione dell’emigrazione verso il Brasile, con sussidi per tutti i sopravvissuti rimasti senza una casa, un lavoro o una famiglia, che decidessero di iniziare una nuova vita oltreoceano. Inoltre, una decina di anni più tardi, nel 1932 il Paese fu invece colpito da una grande depressione agricola, in seguito alla quale il governo giapponese diede sovvenzioni per quei contadini (e per le loro famiglie) che rischiavano di morire di fame e che decidevano di emigrare.

Se però questo impegno istituzionale era nato da un problema di crescita demografica sempre maggiore e dalla preoccupazione dell’opinione pubblica, la strada percorsa nei primi trent’anni del Novecento per incentivare la migrazione non ebbe un impatto così rilevante per risolvere la questione, se si considera che nel 1936 «il numero di giapponesi residenti in Paesi stranieri era di appena un milione, mentre la popolazione del Giappone stava crescendo con un tasso di circa un milione di persone all’anno»[6]. Tuttavia nel giro di qualche decennio la situazione sarebbe cambiata con la seconda transizione demografica, portando il Giappone a dover affrontare il problema diametralmente opposto: dare un freno all’emigrazione.

Secondo dopoguerra e inversione demografica

Dopo la Seconda Guerra mondiale la società giapponese ha subito numerosi cambiamenti e, tra questi, hanno avuto un grande impatto sulla questione demografica l’entrata in modo sempre più rilevante delle donne nel mercato del lavoro, il cambio strutturale dell’economia, con meno famiglie impiegate nel settore agricolo, e la diminuzione della mortalità infantile. Di conseguenza, la popolazione è cresciuta ancora numericamente fino all’inizio degli anni Settanta, ma esaurita questa spinta inerziale ha incominciato ad avere un tasso di crescita sempre più basso, pari a -0,46 nel 2021. In contemporanea, grazie al miglioramento delle condizioni di vita e al progresso delle scienze mediche, è sempre più in aumento l’aspettativa di vita, che comporta la crescita della fetta anziana della popolazione.

Nel campo delle politiche migratorie, fino agli anni Novanta il sistema giapponese si è basato sulla liberalizzazione e un generale laissez-faire, che però diventava sempre meno sostenibile sul lungo termine, perché il continuo deflusso di persone all’estero andava a peggiorare il bilancio della popolazione in diminuzione. L’intento delle istituzioni è diventato quindi quello di attirare lavoratori immigrati nel Paese oppure di far tornare gli emigranti che l’avevano lasciato. Tuttavia le politiche che si sono susseguite dagli anni Novanta fino ad oggi sono rivolte verso i lavoratori altamente qualificati. A partire dai primi anni 2000 le istituzioni hanno incominciato ad agire in modo più aggressivo, con interventi per aumentare un’immigrazione selezionata, ma nonostante gli sforzi secondo il “Gallup Potential Net Migration Index 2018” il Giappone sta diventando un Paese di puro deflusso di lavoratori altamente qualificati, con un indice annuo pari al -8% [7]. Per comprendere questo dato, che va a sancire l’inefficacia delle politiche attuate negli ultimi vent’anni, è necessario quindi guardare alle principali cause che spingono le persone, in primis giapponesi, fuori dal Giappone: la qualità della vita, i rischi economici e i rischi ambientali.

La prima categoria è senza dubbio quella più influente e vede i cosiddetti “lifestyle migrants” alla ricerca di un Paese con un maggiore equilibrio tra vita lavorativa e vita quotidiana, un ambiente sociale e lavorativo che induca meno stress, un’educazione multiculturale per i bambini, maggiore parità di genere e una buona sicurezza pubblica. Infatti la vita lavorativa giapponese è per lo più caratterizzata da un orario di lavoro mediamente lungo e da un sistema di salario basato sull’anzianità. Ha anche paghe meno attrattive e tasse più alte rispetto a Paesi limitrofi, con cui è in competizione, come Hong Kong e Singapore.

Impattante è anche il problema per le donne di veder riconosciuta la parità di genere, in ambito sia lavorativo sia sociale. Infatti è una situazione diffusa il fatto che, rispetto alla controparte maschile, abbiano più difficoltà a trovare lavoro (e in particolare un lavoro a tempo pieno), vengano pagate meno, ci sia una pesante penalizzazione sulla carriera in caso di maternità e il carico lavorativo domestico sia fortemente sbilanciato sulle donne. Inoltre, solo negli ultimi anni è emerso, prima mediaticamente in seguito al caso del 2017 di Shiori Itō e poi a livello sociale, un movimento di portata rilevante contro la violenza sulle donne, grazie al quale sono iniziati i lavori politici per riformare la legislazione in merito, inadeguata a proteggerle e risarcirle.

Rispetto alla crescente tensione internazionale, è in aumento il numero di giapponesi preoccupati anche per i tentativi di modificare o aggirare l’articolo 9 della Costituzione, che non permette al Giappone di avere un esercito, ma solo forze di autodifesa. Nel caso in cui i partiti politici favorevoli a questo cambiamento riuscissero nel loro intento, l’equilibrio diplomatico della regione si andrebbe inevitabilmente a complicare e questa possibilità è un’ulteriore fonte di ansia e instabilità per il futuro.

In ultimo, per quanto concerne la qualità della vita, tra i motivi di emigrazione c’è anche l’educazione dei figli, per coloro che, considerando il futuro poco limpido dell’economia giapponese, vorrebbero garantire ai propri bambini delle competenze multiculturali. Non si tratta solo dell’apprendimento linguistico e di fornire una maggiore competenza in inglese, ma il punto sta nel «far crescere i bambini in adulti in grado di comprendere sulla propria pelle cosa significa “la diversità” all’interno di una società più multiculturale»[8].

Per quanto riguarda invece i rischi economici e i rischi ambientali, sono entrambi collegati e sono diventati sempre più influenti negli ultimi dieci anni. Infatti, già a partire dai primi anni 2000 l’economia giapponese non era in forte crescita e con la crisi mondiale del 2008 la situazione generale delle classi medie e basse è peggiorata. L’evento che però ha davvero messo in difficoltà il Paese, sotto molti ambiti, è stato il disastro di Fukushima del 2011. Le conseguenze sono state così importanti da avere influenze su moltissimi aspetti della vita sociale e culturale delle persone, oltre che sulla vita economica e politica del Giappone. Infatti, le ripercussioni non ci sono state solo per tutte le famiglie del Tōhoku ritrovatesi sfollate e senza lavoro, ma anche nelle altre zone del Paese. Il governo e le maggiori istituzioni non hanno gestito bene la successiva fase di aiuti e messa in sicurezza della zona, modificando i dati trasmessi ai media e applicando sostanzialmente un controllo su ciò che veniva comunicato ai cittadini. Quando questo è venuto alla luce, sia la classe politica sia la categoria dei giornalisti hanno perso molta credibilità di fronte alla popolazione, con un conseguente senso di inaffidabilità e delusione verso media e stampa. Inoltre, in seguito all’incidente sono aumentati i controlli per valutare la probabilità di futuri disastri naturali: in particolare, è emerso che esiste una probabilità del 70-80% che nei prossimi 30 anni avvenga un terremoto di magnitudo 8-9 nella Fossa del Nankai e una probabilità del 70% che ce ne sia uno di magnitudo 7 nella regione del Kantō, sotto alla capitale, oltre a una possibile eruzione del Monte Fuji.[9] Tali informazioni hanno peggiorato ulteriormente l’ansia delle persone già sensibili a queste tematiche.

Anche negli ultimi decenni quindi, come nella prima metà del Novecento, le politiche migratorie messe in atto non hanno avuto un reale impatto sulla situazione demografica ed economica, come si evince almeno per il momento dai dati sulla costante fuoriuscita dei giapponesi dal Paese.

La migrazione dunque è un fenomeno complesso, che cambia forma e modalità nel corso del tempo e a mano a mano che si modificano anche le società stesse. Il Giappone non è un’eccezione al riguardo e gli interventi politici volti a cercare di controllare e governare i flussi migratori non riescono ad avere gli effetti auspicati perché non vanno a cogliere le problematiche che spingono le persone fuori dal Paese. Affinché queste possano essere risolte, occorrerebbe uno sguardo, non schiacciato egoisticamente sul presente con politiche d’emergenza e soluzioni a breve termine, ma lungimirante verso un futuro più ampio, alla ricerca di una sostenibilità per le generazioni che verranno dopo di noi.

 

1 Ogishima, T. (1936). Japanese Emigration. International Labour Review, 34(1), 620.

[2] Ibidem.

[3] Banca dati di riferimento: https://www.stat.go.jp/english/data/kokusei/index.html

[4] Banca dati di riferimento: https://ourworldindata.org/fertility-rate

[5] http://www.greatkantoearthquake.com/aftermath.html

[6] Ogishima, T. (1936). Japanese Emigration. International Labour Review, 34(1), 651.

[7] Oishi, N. (2022). 静かに進む日本人の海外流出――包括的な頭脳循環政策の検討を [Un deflusso dei giapponesi all’estero che continua silenziosamente. Considerazioni per delle politiche comprensive di circolazione del capitale umano]. Articolo reperibile online all’indirizzo: https://imidas.jp/jijikaitai/f-40-229-22-02-g874

[8] Ibidem.

[9] Horiuchi, Y., & Oishi, N. (2022). Country Risks and Brain Drain: The Emigration Potential of Japanese Skilled Workers. Social Science Japan Journal, 25(1), 61.

 

(Featured image source: Flickr fdecomite)